E Rubini torna nella sua Puglia per raccontare "L'uomo nero"

Esce venerdì il film diretto e interpretato dall'attore barese che scava nella storia del padre. Scamarcio e la Golino sono due fratelli

RomaNostalgia canaglia per le zeppole al bar, il bicchiere di spuma e i treni appulo-lucani, col macchinista bonario che lanciava caramelle ai bambini sotto al binario, nella Puglia sparita degli anni Sessanta. È questo e altri sguardi sentimentali sul proprio passato L’uomo nero (da venerdì nei cinema), l’ultimo film di e con Sergio Rubini, che anche stavolta, col suo amarcord tinto di Fellini, ma soprattutto zuppo d’uno struggente omaggio a suo padre, il ferroviere dalla cui figura partì, nel 1990, esordendo con La stazione, cammina come i gamberi. «Il presente? Per me non esiste. Sarà arteriosclerosi, ma non faccio altro che tornare indietro», scherza Sergio, che qui coopta il conterraneo Riccardo Scamarcio (il primo è di Grumo Appula, da cui fuggì a diciott’anni e il secondo è di Trani), spingendolo a recitare un ruolo in cui invecchia. Tra l’altro, accanto all’ex-idolo delle ragazzine, che satura gli schermi passando dal ’68 (Il grande sogno) al ’77 (La prima linea) - e meno male che ha rifiutato un film su Vallanzasca, se no era overdose - figura la sua fidanzata Valeria Golino, qui come sua amorosa sorella d’altri tempi.
In sostanza, pare di stare a Bagheria (anzi, a Baarìa), con i bambini che giocano scalzi e i cavalli in mezzo a strade accecanti, però siamo a San Vito, il budget del film ammonta a cinque milioni e tutto, coperto dal velo del memento, risulta più piccolo e più intimo. Poi recita un bambino barese di otto anni, né brutto, né bellissimo (quindi: giusto), che si chiama Guido Giaquinto, fa la quarta elementare e qui impersona Rubini da piccolo, alle prese con un genitore «che non ha le palle, ma le strapalle», spiega il regista, ormai in pace, forse in idillio, con la figura paterna. «Temevo di fare un racconto bozzettistico, ma se uno non torna a se stesso, che cosa racconta?», si chiede Rubini, che ha una personale Anitona, cioè Anna Falchi, calata nel ruolo d’una romagnola tutta curve, perciò fonte di gelosia per «comare» Franca, la moglie del capostazione, graziosamente impersonata dalla Golino.
«Il mio è un racconto autobiografico? Quando parti da te stesso, narri una sincera menzogna: è tutto vero e tutto finto. Ho visto il film con i miei genitori e mio padre, stupito, m’ha chiesto: “Ma quello, sono io?”», racconta Rubini, che coinvolge l’ex-moglie Margherita Buy in un cammeo. «Miravo a una commedia: viviamo i nostri genitori con i filtri del ruolo. Ma dietro questo padre, c’è un uomo che piange, che dipinge. E capita a tutti noi: quando ripensiamo ai nostri genitori e scopriamo la persona, dietro il ruolo, diventiamo più comprensivi», ragiona Sergio, che si regala la parte di papà Rossetti, mite impiegato delle FfSs col pallino di Cézanne e della pittura. Ma guai a parlargli della scelta dialettale (dicono tutti «ciccosa»), dello specifico regionale: Rubini sbuffa come una locomotiva. «Il mio film non ha nulla di antropologico, né m’importa della ricostruzione geografica, né credo nella regionalizzazione del cinema». Tuttavia, zio Scamarcio in canottiera, che beve il caffè portatogli a letto dalla sorella, pronta a lavargli mutande e calzini, ancorché maritata, promana aria di Levante.

«Lavorare con Rubini è faticoso: è un turbo, che ti costringe a dare di più», chiosa l’attore. «Rubini è irresistibile: m’ha costretto a recitare teatralmente», dice Valeria. Sarà suggestione, ma quando fratello Riccardo prende in braccio sorella Valeria, sembra la prova d’ingresso degli sposi nella casa nuova.

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