E se il "realista" Gaudenzio fosse il capofila dei manieristi?

Il "pittore eccellentissimo" è stato indagato da Longhi e Testori. Ma forse la sua figura rimane ancora sotterranea

E se il "realista" Gaudenzio fosse il capofila dei manieristi?

Vasari (1568) lo aveva capito: Gaudenzio Ferrari fu «pittore eccellentissimo». Un riconoscimento più difficile per un padano che per un toscano. Il giudizio sarà condiviso dal grande Giovan Paolo Lomazzo nel suo trattato Idea del tempio della pittura (1590), dove Gaudenzio è definito uno dei «sette governatori dell'arte». Ma non bastarono questi giudizi a tenere viva, nel corso dei secoli, la memoria del pittore.

Perfino Roberto Longhi osservò di striscio Gaudenzio Ferrari, lasciando al suo geniale allievo, Giovanni Testori, di occuparsene per la mostra su La pittura della realtà in Lombardia. In quella occasione Longhi aveva scritto: «Anche dentro l'aureo Cinquecento è difficile negare la coesistenza di due opposti: da un lato una maniera sempre più artificiale ed astraente dal dato di natura; dall'altro, ed ecco qui esposto l'esempio fondamentale di Moroni, una semplicità accostante, una penetrante attenzione, una certa calma fiducia di poter esprimere direttamente, senza mediazioni stilizzanti, la realtà' che sta intorno». A questa «calma fiducia» non sembra corrispondere la poetica di Gaudenzio. Come Longhi riconobbe in un rapporto con la realtà senza mediazioni la prevalente connotazione della pittura lombarda per due secoli, così Testori riuscì a inseguire la cifra gaudenziana nei pittori piemontesi che lo seguirono, e che si avvicendarono al Sacro Monte. Temo comunque che il Longhi non intendesse assimilare anche Gaudenzio al grande Moroni, diretto precursore di Caravaggio, ma piuttosto a riconoscerlo come il più alto esponente della maniera lombarda, pur non citandolo e comunque non arrivando alla sfrenata passione di Testori manifestata nell'appassionato Elogio dell'arte novarese. Davanti alla «Crocifissione» nella grandiosa cappella del Sacro Monte di Varallo, definita la «Sistina delle montagne», Testori si commuove, riconoscendo in quelle immagini familiari una cronaca di vita vissuta: «Le cose; le figure; i visi; i bambini giocondi e bellissimi; i signorotti opimi; i cani; i cavalli; i cavalieri; le madri; le ragazze; i giovani; gli stendardi; le carni tenere, rosa; quelle tese e gonfie per troppa, vitale maturità; le barbe bianche; le capigliature così celesti, così paradiso, da sembrar aureole... E tutto dato come nell'amplitudine d'un respiro che differenzia e accomuna. Cuori che battono; apprensioni; paure; ingorde alterigie; menti appannate dal troppo avere; spaventi; orrori; presagi; improvvise tristezze; malinconie. E quel riflettersi, in tutti, dell'agonia di chi muore e dello strazio di chi assiste. Gli anni d'un paese; le antichità d'una valle; tempi e tempi di storia umana e dunque di sofferenza e di gioia, di letizia e di dolore».

È così? O non è invece il supremo artificio di una precoce maniera? Vien da pensare che se Caravaggio scende da Moroni per via diretta (ed era la strada prediletta dal Longhi), da Gaudenzio scende, negli stessi luoghi, per naturale eredità, Tanzio da Varallo, altrettanto forte ma alternativo a Caravaggio. Gaudenzio, nel personale percorso di Testori, fu un punto di partenza, una chiave di lettura, quella che Maria Cristina Terzaghi definisce «il grimaldello con cui disserrare un'intera stagione stilistica che dal maestro valsesiano giungerà fino a Tanzio da Varallo e al Pianca. E, a dirla tutta, anche dopo aver capito che Tanzio rimase al Sud, e in particolare a Napoli più a lungo del previsto, che divenne pittore nella bottega del Cavalier d'Arpino e non solo in quella valsesiana del fratello Melchiorre, non si può negare che rientrato in patria, egli darà il meglio di sé al Sacro Monte, guardando e riguardando Gaudenzio».

La lettura critica di Testori è più tortuosa di quella di Longhi e forse più moderna, o attraversata da ansie e turbamenti esistenziali, nei quali entra la psicoanalisi, Soutine, Schad, Varlin, indifferenti ed estranei a Longhi. Di questo percorso più tortuoso, il «manierista» Gaudenzio è il capofila, negli stessi anni di Raffaello e di Michelangelo, esibendo la sua maniera da Perugino e da Leonardo. Lo vediamo già nei polittici di Arona (1511) e di San Gaudenzio a Novara (1514-21). Nell'anno in cui muore Raffaello, Gaudenzio inizia la Crocefissione, terminata nel 1526. In quell'anno, e fino al 1528, dipinge L'adorazione dei Magi. Nel 1529 Gaudenzio lascia il Sacro Monte, e lo troviamo tra il 1532 e il 1534 in San Cristoforo a Vercelli. Subito dopo, tra il '34 e il '36, a Saronno per la vertiginosa cupola del Santuario dei Miracoli con il paradiso che accoglie l'Assunta, in un travolgente concerto di angeli. Quando Michelangelo dipinge il Giudizio universale Gaudenzio è in Santa Maria delle Grazie a Milano. Il suo tempo è parallelo a quello degli artisti più grandi, ed egli si misura con loro nell'Ultima cena per la chiesa milanese di Santa Maria della Passione. C'è da credere che Longhi lo sentisse come un Pontormo (da lui poco amato) del Nord.

In questa potente ricerca intellettuale e nel rapporto con l'arte toscana, e con la sua più intellettualistica variante bolognese, andranno anche studiati i rapporti di Gaudenzio con Filippino Lippi e Amico Aspertini. Nel ricordare quindi il magistero di Testori, si procede oggi con Gaudenzio a individuare una storia parallela e sotterranea.

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