Milano - Sembra di rivederlo Leroy volteggiare nell’aria mentre si scatena in una danza jazz. I muscoli scolpiti che si stagliano contro lo skyline di Manhattan, la pelle nera, tesa e lucida sotto i fari roventi del palcoscenico. Sudato ma contento, come tutte le promesse di Saranno famosi. Afroamericani, cinesi, aborigeni o latini: sapevano che sarebbe stata dura, ma erano anche sicuri che un giorno ce l'avrebbero fatta a sfondare nella Broadway degli anni Ottanta.
Fame, che non vuole dire morti di fame ma assetati di successo.Qualcosa di simile succede oggi a Milano, non alla «High School for performing arts» ma nella più modesta Fabbrica del vapore. Un edificio abbandonato per decenni che il Comune ha recuperato e consegnato ai ragazzi che hanno qualcosa da dire. Mentre le pagine dei giornali tracimano di immigrati bastonati, insultati o ammanettati da orde di italiani razzisti (ultimamente vanno per la maggiore gli aguzzini in divisa da vigile) in questo angolo di città, al confine con il libero stato di Chinatown, sta per nascere la prima agenzia per artisti stranieri fondata da un senegalese. Tutto è pronto per l’inaugurazione nei primi mesi del 2009: a partire dalla campagna pubblicitaria con diecimila volantini, curricula e cartelloni sui tram. Che vuol fare? Innanzitutto dimostrare agli italiani che gli extracomunitari non sono tutti spacciatori di coca o lavavetri (ma quelli non proprio stupidi lo sapevano già) e poi promuovere i talenti che vengono dall’estero: attori, ballerini, cantanti, musicisti d’ogni razza e colore. Già perché il mercato c’è e gli artisti stranieri sono già gettonatissimi: non esiste trasmissione televisiva o spettacolo teatrale che rinunci ad avere nel suo cast almeno un immigrato, se sono un paio ancora meglio. Questione di politically correct e non solo. I pensatori dicono che l’arte e i suoi derivati poveri, tra cui la tv, devono rispecchiare la società che cambia, anzi che ormai è bella che cambiata. Basta entrare in una scuola la cui retta non superi i 500 euro mensili o più semplicemente fare un giretto in piazza Duomo per togliersi ogni dubbio residuo. Viene noia a ripeterlo, ce ne scusiamo e promettiamo di usare questo termine una sola volta nell’articolo: l’Italia è multietnica, ci piaccia o no. Che palle, avete ragione. Negli Stati Uniti lo avevano capito già trent’anni fa con il telefilm Il mio amico Arnold e a novembre (non è detto, ma i sondaggi lo danno favorito) forse avranno Obama come primo presidente nero. Ma questo è un altro discorso.
Viene però il dubbio che quotidiani e editorialisti inzuppino un po’ troppo il biscotto nell’intolleranza. Roma, Milano, persino la pacifica Parma: sembra che invece che la solita pizza con gli amici o il cinemino con la fidanzata si preferisca passare la serata a dare la caccia all’africano di turno. Qualche delinquente ci sarà pure, come ci sono quelli che violentano le ragazzine o scippano le vecchiette per strada. Non dovrebbero esistere d’accordo, ma purtroppo ci sono sempre stati. Però da qui a dire che siamo una masnada di razzisti nostalgica del Klu Klux Klan il passo è lungo. Per questo la storia del nostro talent scout senegalese è emblematica. Modou Gueye (che intervistiamo qui sotto), 39 anni, da quando è arrivato a Milano nel 1990 ha fatto di tutto: vu’ cumprà, prestinè, che in milanese significa panettiere, gommista e adesso attore, regista, nonché direttore artistico del laboratorio teatrale «Mascherenere». Lui lo sa, se vivesse in un Paese intollerante non sarebbe arrivato fin qui e sa anche che la sua agenzia sarebbe destinata al fallimento. Ma scemo non è: «Il mercato c’è, nonostante la crisi del lavoro. Molto spesso sono gli stranieri a ignorare le possibilità di lavoro che hanno. Io vivo qui da vent’anni e non ho mai subìto discriminazioni».
All’agenzia le richieste fioccano ancora prima dell’apertura, tutti vogliono i suoi immigrati. «Perché l’Italia non è razzista e soprattutto loro sono in gamba», spiega lui e noi gli crediamo.
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