Ecco perché deve rinascere la Dc

Paolo Cirino Pomicino

Caro direttore,
giovedì scorso ho letto con attenzione l’articolo di Salvatore Scarpino a commento dell’iniziativa per ricostituire la Democrazia cristiana. Un articolo intriso di veleno, ricordi sbagliati e di facili ironie il tutto temperato solo dalla simpatia verso il mio amico Geronimo. Del che, naturalmente, gli sono grato. La situazione politica italiana, però, è talmente seria e preoccupante da imporre a tutti un rigore di analisi accompagnandolo sempre con la saggezza del dubbio come si conviene quando si esprime una opinione. È per questo motivo che non rendo a Scarpino pan per focaccia chiosando con frizzi e con lazzi il suo sentimento di appartenenza alla Casa delle libertà. Andremmo fuori strada e perderemmo di vista il tema che sta a cuore a tutti noi editorialisti del Giornale e cioè la salvezza del Paese. Ognuno, naturalmente, ha una sua opinione che legittima a ritenere sbagliate le altre (il dubbio è sempre il migliore compagno di viaggio) ma non certo a deriderne. E così farò nei riguardi dell’amico Scarpino e delle sue consolidate certezze. Partiamo dai fatti che non sono opinioni. Da dieci anni l’Italia è all’ultimo posto tra i Paesi europei per tasso di crescita, in dieci anni ha perso il 40 per cento delle proprie esportazioni e nello stesso periodo, come ha giustamente scritto Maurizio Belpietro, la grande impresa pubblica che faceva ricerca e innovazione nei settori a tecnologia avanzata è stata sostituita da imprenditori che hanno investito in finanza e in giornali. Nel 1991 il debito pubblico era il 100% del Pil. Dopo dodici anni di manovre correttive, dopo la vendita di aziende pubbliche per 150 miliardi di euro e nonostante il calo internazionale dei tassi di interesse che ci ha fatto risparmiare non meno di 70 miliardi di euro, il debito pubblico è salito al 106% (dati Bankitalia).
L’Italia è un Paese che invecchia, che ha visto accentuare il dualismo economico tra Nord e Sud e che vede i poteri e gli interessi legittimi presenti in ogni società democratica in rotta di collisione in una guerra di tutti contro tutti. Nel contempo, sul piano politico, abbiamo visto una proliferazione dei partiti che da otto sono passati a diciotto. Nessun partito supera il 20 per cento e solo quattro il 10 per cento. Insomma una frantumazione che è sotto gli occhi di tutti e che continuerà a crescere nei prossimi giorni con la preannunciata rottura della Margherita e con il sorgere di movimenti regionali come quelli siciliani, veneti, pugliesi e via dicendo che stanno smottando pezzi importanti di partiti molti dei quali già di modeste dimensioni. Dinanzi a questo stato di cose, dobbiamo forse concludere che Berlusconi, Fini e Casini o Prodi, Rutelli e Fassino siano dei leader incapaci di costruire partiti di massa come quelli esistenti in tutta Europa o, invece, che l’Italia è stata colpita dal famoso «destino cinico e baro»? Niente di tutto questo, a nostro giudizio, risponde a verità. La responsabilità di quanto sinora descritto è, invece, secondo noi ascrivibile a una collettiva rimozione delle identità di ciascuna forza politica. Conseguenza di questa rimozione sono i partiti padronali dove i leader preferiscono ordinare piuttosto che convincere e dove i contrasti cessano di essere politici e diventano personali con tutte le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Ma cos’è «una identità», ci si può obiettare. L’identità di un partito è un patrimonio di valori civili, religiosi, culturali e politici, che danno una chiave di interpretazione dei fenomeni sociali, economici e di costume che consentendo, poi, di offrire efficaci risposte ai nuovi bisogni della società. L’identità, insomma, è quel profilo che ha consentito nel passato a due grandi partiti di massa tra loro alternativi, la Dc e il Pci, di allearsi per tre anni per battere il terrorismo brigatista senza che nessun italiano abbia mai potuto confondere un democristiano con un comunista e viceversa, tanto nette e diverse erano le rispettive identità. Mi dispiace per Scarpino, ma il cattolicesimo politico è una identità, il moderatismo no, come non lo è il riformismo che predica il centro-sinistra.
Ci sono moderati che sono riformisti e altri che sono conservatori così come ci sono riformisti moderati e altri che senza essere rivoluzionari hanno del termine una concezione classista. E così è in tutta Europa, dove ci sono comunisti, socialisti, liberali, ambientalisti, democristiani o popolari che dir si voglia e nazionalisti ma nessuna Paese ha due dei tre maggiori partiti con nomi simili a Forza Italia e Margherita. Entrambi questi partiti, tanto per rimanere nell’esempio, sono l’insieme di storie politiche diverse che in dieci anni non hanno trovato una nuova identità culturale e politica (ricordate la ricerca della terza via dei post-comunisti?) con la quale sostituire le precedenti e hanno pensato di poterle sostituire con «il programma» o con un leader. Ogni programma di partito se non ha l’impronta della propria identità culturale e politica è solo il frutto di un centro studi privo di un’anima e incapace di rappresentare un progetto entro il quale interessi diversi possono agevolmente riconoscersi e operare. Ogni leader senza una cultura politica di riferimento finisce per avere un ciclo vitale necessariamente breve. E siamo giunti alla conclusione del nostro ragionamento. L’Italia deve riscoprire le culture politiche di riferimento con le quali ognuno sa cos’è il suo compagno di viaggio, il suo avversario e se stesso riscoprendo la forza vitale della democrazia all’interno di ciascun partito e abbandonando i mortificanti arnesi dei partiti proprietari di cui abbonda il panorama politico italiano. Questa la nostra diagnosi e di qui il rilancio di un partito che ha nel suo nome una identità certa. Siamo pronti a confluire con quei partiti che quella identità dovessero sposare, auspicando che anche gli altri riscoprano e rilancino le proprie identità.

Se tutti faremo uno sforzo, l’Italia avrà una politica degna di questo nome e arresterà così la frantumazione politica e con essa il declino economico e sociale.

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