Ecco perché l’attacco a Teheran ora è una possibilità concreta

Negli Usa ormai domina il partito dei falchi e si attende solo il «casus belli» per scatenare la guerra. Il delicato ruolo dei Paesi arabi moderati

La prima battaglia si combatterà alla Casa Bianca, ma il suo destino è già deciso. Ad affossare la linea diplomatica del segretario di Stato Condoleezza Rice e a ridare fiato all’interventismo del vice presidente Dick Cheney e dei falchi del Pentagono ci ha pensato Mohammed el Baradei.
LA BATTAGLIA DIPLOMATICA
Convinto di poter indurre l’Iran a confessare i suoi piani nucleari, il direttore generale dell’Aiea ha avviato una personalissima trattativa con Teheran costringendo il Consiglio di sicurezza dell’Onu ad accantonare il crescendo di sanzioni destinato a piegare l’Iran. L’iniziativa ha spiazzato Condoleezza Rice ridando spazio a Cheney e ai suoi generali.
Ad attizzare la pira interventista contribuiscono i rapporti sulle forniture iraniane alle milizie sciite in Irak che, stando al generale Kevin Bergner, portavoce americano in Irak, includono anche i missili di grosso calibro caduti di recente su un’importante base statunitense. La presenza in Irak di Bergner, una delle anime dei piani interventisti, non è un caso. La guerra a Teheran potrebbe iniziare proprio da lì. Il crescendo di denunce sull’impiego di armi marchiate Teheran segnerà la via maestra per quell’escalation che punta ad annientare i siti nucleari iraniani e il grosso dell’apparato bellico della Repubblica islamica.
In attesa dell’esibizione del casus belli prevista per i primi mesi dell’anno prossimo, la Casa Bianca archivierà progressivamente la politica negoziale di Condoleezza Rice. I grandi preparativi per l’intervento destinato a segnare l’ultimo semestre dell’era Bush sono già in corso.
L’OPZIONE MILITARE
A Madra, una località irachena a sette km dalla frontiera irachena, il Pentagono sta allestendo una base testa di ponte per la penetrazione nel cuore della Repubblica islamica. Il vice ministro degli Esteri Mohammed Baqiri ha già risposto minacciando incursioni sul suolo iracheno per far piazza pulita dei gruppi armati «infiltrati dagli americani all’interno della Repubblica islamica». La reazione iraniana è quasi incoraggiata dal Pentagono, che gioca sull’escalation progressiva per giustificare i successivi attacchi ai siti nucleari e all’apparato militare iraniano. Quelle incursioni su duemila obbiettivi potrebbero lasciare sul terreno, secondo un rapporto dell’Oxford Research Group, migliaia di vittime civili e mettere in seria difficoltà Washington sul piano politico e morale.
LA REAZIONE DI TEHERAN
Il primo focolaio del grande incendio sarà Fajr, la base dei Pasdaran nel sud dell’Iran considerata la filiera degli ordigni che seminano morte tra le truppe americane in Irak. La distruzione di Fajr innescherà - verosimilmente - i tentativi iraniani di bloccare il traffico petrolifero in tutto il Golfo. Gli Stati Uniti avrebbero a quel punto il pretesto per sferrare il colpo di maglio ai siti nucleari. L’escalation, dalle prime scaramucce di terra all’attacco generale, non potrà durare più di una settimana. In quel tempo limite - mentre le truppe americane in Irak fronteggeranno la guerra d’attrito sul fronte iracheno e la massiccia offensiva iraniana - l’aviazione dovrà annientare l’apparato militare di Teheran e i siti nucleari.
Secondo il Sam Gardiner, un ex alto ufficiale dell’aviazione statunitense oggi docente di Strategia militare, solo la distruzione dei siti nucleari richiederà 400 incursioni disseminate nell’arco di almeno cinque giorni con l’utilizzo, in 75 casi, di ordigni capaci di penetrare per decine di metri nel sottosuolo. Una difficoltà che il vice presidente Dick Cheney vorrebbe superare impiegando ordigni nucleari tattici. Altre incursioni non meno cruciali dovranno mettere fuori gioco le batterie di missili Scud e Shahab 3 capaci di colpire Israele, le basi militari in Irak e i Paesi del Golfo alleati degli Stati Uniti.
I PAESI ARABI E ISRAELE
Sul piano internazionale l’attacco richiederà una delicata rete di alleanze con le nazioni arabe sunnite. Mentre Israele cercherà di tenersi in disparte e non rispondere alle provocazioni come già durante la prima guerra a Saddam Hussein nel 1991, l’Arabia Saudita, preoccupata per l’appoggio iraniano a Hezbollah e per il rischio di una caduta dell’Irak nelle mani di Teheran, guiderà le nazioni sunnite. Ma non tutti i Paesi del Golfo sono disposti a seguirla. Lo scorso gennaio il presidente del Majlis, Gholam Ali Hadad Adel, ha ricordato agli alleati di Washington nell’area l’inevitabile rappresaglia di Teheran. Qualche giorno dopo il Kuwait ha precisato di non voler concedere l’uso delle proprie basi per azioni contro l’Iran.
LE MINACCE TERRORISTICHE
Oltre ai fitti lanci di missili - con cui Teheran promette di disorientare le difese elettroniche statunitensi e colpire in un raggio di duemila chilometri - il Pentagono dovrà guardarsi dalle milizie di Hezbollah e dalle micidiali risposte asimmetriche. Per mobilitare il Partito di Dio e indurlo a riprendere gli attacchi missilistici su Israele basterà un ordine della Suprema Guida Al Khamenei. Ma la minaccia più insidiosa resta invisibile.

Tra il 1992 e il 1994 l’uccisione di Abbas Mussawi, segretario generale di Hezbollah, e il rapimento di un altro leader sciita nel Libano innescarono due devastanti attentati contro obiettivi ebraici a Buenos Aires. Rappresaglie simili messe a segno da cellule dormienti potrebbero colpire obbiettivi occidentali non solo in Medio Oriente, ma anche in Europa e negli Stati Uniti.

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