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La Bce vede il rischio bolla sulla casa

Nel trimestre +7% i prezzi dell'immobiliare. E preoccupa l'aumento del debito

La Bce vede il rischio bolla sulla casa

Della parola «bolla» non c'è traccia, ma nell'ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria la Bce non fa mancare una triade di caveat da non sottovalutare: troppo ruggenti le valutazioni toccate nei mercati immobiliari, elevata l'assunzione di rischi da parte di soggetti non bancari, occhio all'indebitamento corporate. Tutte potenziali mine sul consolidamento della ripresa economica ora che la fase più acuta dell'emergenza Covid sembra alle spalle.

Se l'aumento del debito sovrano resta un sorvegliato speciale essendo il fattore più sensibile a un deterioramento congiunturale, il mattone è la plastica rappresentazione degli effetti collaterali prodotti dalla fase post-pandemica, con i prezzi delle case lievitati di oltre il 7% nel secondo trimestre, il ritmo di crescita più alto dal 2005. La pressione esercitata da una domanda cresciuta grazie allo smart-working e ai risparmi accumulati durante i lockdown, non ha trovato sbocco in un'offerta di immobili ancora soffocata dalla carenza di manodopera, dalle strozzature nella catena di approvvigionamento globale e dagli aumenti dei prezzi dei fattori produttivi. Di qui l'ascesa dei prezzi, con la banca centrale guidata da Christine Lagarde che vede come concreto il rischio di «una correzione sia nel segmento residenziale che in quello commerciale».

È una minaccia che pesa sulla recovery quanto quella legata all'andamento lento della campagna vaccinale in alcune aree del mondo e al rincaro dei prezzi energetici, con il restringimento nell'offerta di gas a rappresentare il pericolo più recente. Di fatto, gli stessi mercati finanziari manifestano qualche vulnerabilità indotta dalla crescente assunzione di rischi da parte degli investitori, alla ricerca di rendimenti; mentre «fondi di investimento, assicuratori e fondi pensione - osserva il rapporto - hanno continuato ad aumentare la loro esposizione al debito societario con rating basso».

La Bce, tuttavia, non intravvede il pericolo di «un'esuberanza irrazionale» di greenspaniana memoria. Non almeno fino a quando ci saranno condizioni di finanziamento molto favorevoli e tassi azzerati. Il problema è cosa potrebbe accadere se la fiammata dell'inflazione, salita al 3,4% in settembre nell'eurozona, non dovesse rivelarsi temporanea. Francoforte è già in modalità meno espansiva, e in dicembre chiarirà il percorso verso la fine del Pepp, il piano anti-pandemia da 1.850 miliardi, entro il marzo del 2022. Oltre quella data, tutto è possibile: dall'implementazione di un nuovo Qe in caso di intoppi nella ripresa, fino a un rialzo dei tassi se i prezzi al consumo non avranno abbassato la testa. La Bce fa il tifo per una completa recovery da cui dipenderà anche la (parziale) correzione dell'alto indebitamento visto che nel 2020 circa il 35% dell'aumento del rapporto debito-Pil è stato determinato dalla caduta della ricchezza nazionale.

In caso contrario, se cioè i costi di finanziamento dovessero salire e la crescita economica essere inferiore alle aspettative, «ciò potrebbe mettere la dinamica del debito sovrano in una traiettoria sfavorevole, specie nei Paesi a più alto debito, e contribuire a una certa rivalutazione del rischio sovrano da parte dei mercati». Insomma, spread più alti. L'Italia è avvertita.

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