Effetto Fed, parte seconda. Dopo Wall Street, anche le Borse europee si sono ieri subito calate nel mood euforico, indotto dalla decisione di Ben Bernanke di mantenere invariato il piano di acquisti mensili da 85 miliardi di dollari. Niente tapering, rimandato a fine anno o, più verosimilmente, al 2014, quando salvo sorprese sarà Janet Yellen a dettarne modalità e tempistica dalla plancia di comando della banca centrale Usa.
L'endless summer, l'estate infinita della liquidità abbondante e a basso costo, dunque prosegue: ciò è bastato per gonfiare i listini e riportare così l'indice paneuropeo Ftse 300 ai livelli precedenti il crac della Lehman Brothers. Ma un paniere altro non è una media che nasconde profonde differenze. Piazza Affari, la migliore in Europa (+1,43%), sconta ancora una distanza siderale, misurabile in un 35%, rispetto al 2008. Una cicatrice che fatica a rimarginarsi più per la crisi del debito sovrano, che a causa di quella dei mutui subprime.
Resta da chiedersi fino a che punto la reazione dei mercati sia legittima. Lo è se si ragiona in termini strettamente finanziari: finché gli steroidi messi a disposizione dalla Fed restano in circolo, la festa del rialzo può continuare. Anche a rischio di quell'esuberanza irrazionale stigmatizzata da Alan Greenspan e a dispetto di fondamentali economici certo non esaltanti, nonostante «per la prima volta in tanto tempo - ha detto ieri il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde - l'area euro stia iniziando a crescere, anche se molto c'è ancora da fare». Le stesse motivazioni addotte da Bernanke per spiegare il mancato avvio dell'exit strategy avrebbero probabilmente dovuto consigliare ai mercati una risposta più prudente. Il Paese corre meno del previsto, ha ammesso il capo della Fed nel recitare un inedito mea culpa sulla sopravvalutazione della crescita.
A parte una certa carenza di comunicazione imputabile al presidente della banca di Washington (due mesi di silenzio hanno lasciato credere a tutti che la stretta fosse ormai imminente), la revisione al ribasso delle stime sul pil, un'inflazione troppo fredda e soprattutto un tasso di senza lavoro troppo elevato, indicano che gli Usa hanno ancora bisogno della stampella del Qe dopo gli oltre 3mila miliardi iniettati nel corpo dell'America.
Va, infine, tenuto conto delle implicazioni che il «braccino corto» della Fed avrà sui rapporti di cambio, a causa dell'indebolimento del dollaro. L'euro ha superato ieri quota 1,35, e alcuni economisti lo collocano nel breve a 1,40-1,50 contro il biglietto verde. Un rischio per l'export, un pericolo per la nostra (faticosa) ripresa.
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