Gent Una foresta di 200 ettari: questo fa la differenza. E poi la distanza dall'abitato, l'opulenza degli spazi che rendono la fabbrica una città diffusa su un'area di 800 ettari. Spazi che indicano la lungimiranza di quei tecnici che nel 1966 piantarono qui, a Gent, in Belgio, i primi altoforni di una fabbrica che oggi è un modello di produttività, di rispetto degli uomini e dell'ambiente. La siderurgia è un'industria pesante e poco pulita. Ma da qui viene l'esempio che si può fare. Negli stessi anni, a Taranto, la città cresceva e si avvicinava sempre più pericolosamente all'Italsider, oggi Ilva. Spazi angusti, la vita della gente mescolata a fumi, minerali, lavorazioni, e tutto quello che sappiamo.
AcelorMittal ieri ha aperto i suoi impianti di Gent alla stampa italiana per dimostrare che i rotoli di acciaio lunghi anche uno, due chilometri, possono nascere in un ambiente controllato e vivibile. L'invito non era disinteressato. Il 3 marzo, dopo due rinvii, scadrà il termine per presentare le offerte per rilevare l'Ilva, e la lussemburghese AcelorMittal, il primo produttore d'acciaio al mondo, si candida all'investimento. Ed esibisce i risultati del suo stabilimento che si possono facilmente confrontare con i numeri di Taranto. A Gent la produzione è di 5,4 milioni di tonnellate con 4.700 dipendenti. A Taranto si producono 6 milioni di tonnellate con oltre 10mila.
Il 3 marzo le buste proverranno da due cordate: la prima AcelorMittal con Marcegaglia, che è il maggior cliente dell'Ilva. La seconda, Cdp, Arvedi, Del Vecchio e Jindal, gruppo indiano che van Geert van Poelvoorde, ceo di AcelorMittal per l'Europa, non considera un competitor all'altezza. I dettagli dell'offerta sono riservati, ma qualche indicazione c'è. AcelorMittal punta a produrre a Taranto 6 milioni di tonnellate con tre altoforni, con la possibilità di salire a 8 milioni importando nello stabilimento due milioni di bramme, lingottoni lunghi 10 metri dai quali si producono i rotoli d'acciaio che vanno all'industria meccanica, a cominciare dall'automobile. Il forno 5, spento, non sarà riattivato: costerebbe 250-300 milioni, e «non è una priorità». Sull'investimento complessivo non si fanno cifre, ma van Poelvoorde ricorda che in un impianto normale, e non «disastrato come l'Ilva», le sole manutenzioni valgono 20 euro per tonnellata all'anno.
L'obbiettivo sarebbe elevare il livello di qualità della produzione, immettendo innovazione e valore aggiunto in un prodotto che deve difendersi dalla «commoditizzazione». «La volontà politica di tenere in vita lo stabilimento» è presupposto per un investimento «di lungo termine». Ma l'impegno non potrà prescindere «dall'accordo con il governo, con i sindacati, con le comunità locali».
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