Prezzi sottozero, Draghi in manovra

L'Eurozona va in deflazione (-0,2%) in dicembre e facilita le mire espansive del presidente Bce. L'euro scivola a 1,18 dollari

L'incubo è diventato realtà: l'Eurozona è in deflazione. Dopo oltre cinque anni, i prezzi al consumo sono infatti scesi in dicembre dello 0,2% (a quota zero invece in Italia). Inevitabile, visto il fortissimo calo subìto dalle quotazioni del petrolio, il cui valore si è più che dimezzato rispetto a 110 dollari del giugno 2014. Ora il barile fatica a mantenersi sopra la linea di galleggiamento dei 50 dollari, e in assenza di misure di contenimento da parte dell'Opec, al momento non all'orizzonte (il Cartello ha smentito ieri le indiscrezioni sulla convocazione di una riunione d'emergenza), è verosimile una prosecuzione della parabola discendente. Con due possibili conseguenze: una benefica per la domanda interna, che potrebbe tuttavia essere annacquata dal mini-euro, schiacciato ieri a quota 1,18 dollari, il minimo da ben otto anni e il 15% circa in meno rispetto al picco del marzo scorso; una negativa a causa dell'ulteriore raffreddamento dell'inflazione che, tra l'altro, sarebbe poco desiderabile per i Paesi alle prese con un già complicato processo di aggiustamento di risanamento dei conti pubblici. È ciò che la Bce vuole evitare per scongiurare il pericolo che Eurolandia si avviti in quella spirale deflazionistica che ha tagliato le gambe al Giappone.

Non a caso, il dato sui prezzi diffuso da Eurostat ha alimentato le attese per il varo di un piano di acquisti di titoli di Stato (e non solo) da parte della banca centrale guidata da Mario Draghi, in occasione della riunione del prossimo 22 gennaio. Le Borse si sono tuttavia mantenute caute (Milano, in calo dello 0,11%, è stata l'unica piazza a chiudere in rosso) anche a causa dei timori legati alla possibile ristrutturazione del debito greco. L'altra fonte di preoccupazione resta il petrolio: ieri mattina anche il Brent è scivolato sotto i 50 dollari per la prima volta dal maggio 2009. Fenomeno che sta inducendo la Federal Reserve a temporeggiare: «Improbabile un rialzo dei tassi prima di aprile», si legge infatti nelle minute dell'ultima riunione, diffuse ieri sera.

Le condizioni per rompere quello che finora è stato un autentico tabù che ha impedito a Francoforte di seguire la strada già tracciata dalla Fed, dalla Bank of England e dalla Bank of Japan, sembrano comunque esserci. Nonostante la Commissione Ue abbia minimizzato, parlando di «segno negativo provvisorio», la discesa sottozero dell'inflazione, Draghi sa bene che nello scenario macroeconomico attuale sono pochi i margini per ridare un po' di colore ai prezzi. Se i mercati danno ormai quasi per scontato il lancio imminente del quantitative easing in salsa europea, resta ancora qualche tassello fuori posto a rendere non del tutto risolto il puzzle. Lo scontro con la Bundesbank, contraria a misure estreme che potrebbero indurre i governi a differire le riforme strutturali, non pare ancora essere terminato. Nei mesi scorsi, Draghi ha più volte sottolineato di godere di una «maggioranza confortevole» all'interno del board. Nulla, insomma, gli vieterebbe di procedere con il QE. Ma se l'ex governatore di Bankitalia riuscisse a presentarsi all'appuntamento del 22 gennaio forte del consenso dei tedeschi, è evidente che il bazooka acquisirebbe tutta un'altra forza.

L'altro punto di incertezza riguarda le elezioni in Grecia: cadono appena tre giorni dopo la riunione della Bce e potrebbero essere un elemento tale da condizionare le scelte di Draghi alla luce della probabile affermazione del partito della sinistra radicale Tsipras.

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