Quell'autogol della Apple che dà nuove armi al fisco

Il direttore finanziario Maestri confessa di svolgere un'attività di vendita in Italia. Si apre un altro fronte

Quell'autogol della Apple che dà nuove armi al fisco

Sul Corriere della sera, il direttore finanziario di Apple, Luca Maestri, ha rilasciato una intervista interessante. Ma che rischia di diventare un autogol e di riaprire un nuovo fronte fiscal-giudiziario. In una frasetta ha distrutto un lavoro di cesello fatto dai suoi fiscalisti fino ad ora.

Facciamo prima un passo indietro. L'Irlanda, come ormai si sa, è stata condannata dalla commissione europea a recuperare 13 miliardi dal colosso di Cupertino. Il motivo è semplice. Il paese celtico, secondo l'accusa Ue, ha applicato ad Apple una tassazione ad personam ancora più bassa della già ridotta aliquota del 12,5 per cento che riserva ai profitti delle multinazionali. Se Renzi o Letta si fossero azzardati, che so, ad avvantaggiare fiscalmente le acciaierie Ilva, per la nostra industria e l'occupazione vitali, la Ue li avrebbe crocefissi. Giusto o sbagliato che sia, si tratta di una regola a cui si sono adeguati tutti i Paesi Ue, tranne l'Irlanda e il Lussemburgo guidato proprio dal presidente della Commissione. Il nostro governo sta facendo salti mortali per aiutare le banche, esattamente perché non vuole e non può incappare in procedure di infrazione. Quando il campo di gioco si altera per un'impresa o un gruppo di imprese, la commissione parte lancia in resta per denunciare l'illegittimità del comportamento.

Sul Corriere, dicevamo, il capo della finanza di Apple dice testualmente: «Quando vendiamo i nostri prodotti in Francia, Spagna o Italia, paghiamo le imposte in quei paesi. Relative alle attività in quei paesi, che sono essenzialmente di distribuzione e vendita dei nostri prodotti». Fermi tutti, così Apple ammette, per tabulas, che in Italia, come in Spagna e Francia, svolge un'attivitá di vendita. Tenete a mente questa confessione, che ora sembrerebbe scontata.

Pochi mesi fa la stessa azienda ha pagato, come ha rivelato il capo dell'Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi, un verbale da più di 300 milioni per imposte non pagate in un lustro. La cifra non è frutto di un accordo, ma di un verbale che la Apple non è riuscita o non ha voluto contestare. Con quel verbale la multinazionale americana ha così ammesso la sua stabile organizzazione in Italia. Ma il verbale è stato relativamente contenuto (si calcoli che una parte sono sanzioni, anche se al minimo) perché Apple ha sì ammesso di avere una stabile organizzazione in Italia, ma non certo finalizzata alla vendita.

In genere multinazionali tipo Apple, con quartier generale in paradisi fiscali, quando vengono costrette a pagare le tasse nei singoli paesi lo fanno sulla quota di ricavi derivante dal «supporto alla vendita» e dal «marketing» fatto localmente. Non certo sulla vendita vera e propria. Cerchiamo di essere più chiari con un esempio serio nella sostanza, ma inventato nei numeri. Se vendo in iPhone a mille euro, posso attribuire all'Italia 100 euro di reddito derivante dalle attività di marketing e supporto alla vendita (Probabilmente su queste basi é stato fatto l'accordo con la Orlandi e il procuratore Francesco Greco). Se, invece, dovessi imputare all'Italia anche la quota parte di profitti derivante dalle vendita vera e propria il valore salirebbe a 400-500. E di conseguenza anche le entrate fiscali per le Finanze del Paese, lieviterebbero.

Ecco perché il cfo di Apple ha commesso un autogol, di cui ci aspettiamo una pronta rettifica.

Nella sua intervista ha pubblicamente ammesso che la sua controllata in Italia si occupa delle vendite e dunque su quella base di ricavi e profitti dovrebbe essere tassata. Altro che 300 milioni in cinque anni. Un giudice potrebbe ritenere questa ammissione pubblica un fatto rilevante, nuovo e tale da comportare una nuova verifica fiscale con Cupertino.

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