Economia

Le reazioni al piano di bpm. Un coro di no allatrasformazione in spa

Il salto in avanti di Bpm è legato alla sua situazione particolare, e non creerà un precedente per altre cooperative. È questa la posizione, unanime, dei presidenti delle Popolari

Le reazioni al piano di bpm. Un coro di no allatrasformazione in spa

Non solo Bpm. Anche in Ubi Banca c’è chi sta pensando a trasformare questa Popolare in spa. Inoltre, c’è tutta una parte del mondo del credito mutualistico che vorrebbe regole diverse da oggi, soprattutto sul voto capitario, che significa un voto per ogni testa; in pratica ogni socio ha diritto a un solo voto in assemblea, indipendentemente dal valore della propria quota di capitale sociale, mentre nelle società per azioni - come si sa - i voti sono attribuiti in proporzione al numero di azioni possedute da ogni socio.

Quella del voto capitario è una norma ereditata dall’Ottocento: e non a caso, infatti, il sistema del credito cooperativo vanta un “manifesto” ufficiale di nascita che risale a 150 anni fa, firmato da Luigi Luzzati, e che una parte cospicua della categoria vorrebbe ne durasse altrettanti, senza modifiche o sovversioni. Anche perché il modello delle banche popolari - avvertono gli estimatori - genera più utili degli altri istituti di credito e assolve egregiamente a quei compiti etici e sociali che fanno parte del Dna di queste aziende.

Ma la prima spallata alla pluricentenaria forma societaria l’ha data Andrea Bonomi, presidente della Popolare di Milano, guidata da Piero Luigi Montani, che vuole trasformare entro luglio la Bpm in società per azioni (vedi articolo a pag. 10). Un traguardo che sembrava impossibile solo due anni fa a causa di un sistema di regole sedimentate in un secolo di storia nella sede storica meneghina di piazza Meda. Questo tentativo, come un’onda, si starebbe propagando ad altre Popolari, anche se la Bpm non vuole diventare un modello per altre consorelle. Delle quali, la più vicina a Milano, lungo l’autostrada A4, è Ubi Banca che ha il cuore e il portafoglio diviso tra Bergamo e Brescia. La banca, ricordiamolo, nasce da Bpu (primo matrimonio tra banche popolari, con la sede sociale a Bergamo), e Banca Lombarda (spa di Brescia, sorta a sua volta dalla fusione per incorporazione della Sanpaolo di Brescia nel Credito agrario bresciano).

POCHI SOSTENITORI. In questi 48 chilometri che dividono Bergamo da Milano e nei 94 che separano Brescia dalla metropoli ambrosiana, il tema della spa è stato sollevato da un consigliere dell’“Associazione Insieme per Ubi”, Andrea Rittatore Vonwiller, secondo il quale, «il voto capitario è un ostacolo allo sviluppo; del resto la sottocapitalizzazione è un elemento sotto gli occhi di tutti: c’è bisogno di attrarre capitali, e con le Popolari e il voto capitario non arrivano».

Un ragionamento subito stoppato da Emilio Zanetti, presidente di Assopopolari. Il quale, in versione “padrone di casa”, nell’annuale convegno dell’istituto che, nel febbraio scorso, si è tenuto proprio a Bergamo, al Teatro Sociale, ha difeso strenuamente il modello cooperativo. E come presidente del consiglio di gestione di Ubi Banca ha definito «infondata» l’ipotesi che l’istituto vada nella direzione della spa. «Siamo lontani anni luce» ha ribadito.

Anche molti altri interventi al Sociale di Bergamo hanno rimarcato la validità dell’attuale modello cooperativo. Tancredi Bianchi, professore emerito di Economia delle aziende di credito alla Bocconi e presidente onorario di Abi, per esempio, ha spiegato che le Popolari commetterebbero un gravissimo errore se cambiassero pelle. Gli ha fatto eco il presidente degli Istituti banche popolari, e numero uno del Credito Valtellinese, Giovanni De Censi, il quale ha sottolineato che il modello spa «non è un problema che riguarda le nostre banche».

Ancora più conservatori dei bergamaschi sono i ragionamenti che si fanno a Verona, nelle stanze del Banco popolare, o a Modena, nel cuore della Popolare dell’Emilia Romagna. Il che sta a significare che la rivoluzione milanese, al momento, non è da esportazione. I modenesi, infatti, hanno messo da parte qualsiasi progetto di trasformazione della loro banca in una società per azioni fin dai tempi della mancata fusione proprio con la Popolare di Milano, che all’epoca era guidata da Fabrizio Viola, oggi amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena. Mentre nel quartier generale veronese, presieduto da Carlo Fratta Pasini, la trasformazione del gruppo in spa non viene neppure presa in considerazione. E che cosa ne pensa Gianni Zonin, numero uno della Vicentina? La questione non è mai stata all’ordine del giorno, e neppure in quello dell’assemblea che si terrà ad aprile.

POTENZA DI FUOCO. Eppure ci sono precedenti notissimi di trasformazioni bancarie da società cooperative a società per azioni. Uno riguarda la Banca Agricola Mantovana che, dopo oltre un secolo di vita (era stata fondata nel 1871 da garibaldini) nel 1999 è diventata una spa in vista della cessione al Monte dei Paschi di Siena che ha incorporato, poi, l’istituto mantovano nel 2008. L’altro riguarda Antonveneta, nata come Banca popolare Antoniana Veneta, e convertita in spa nell’aprile del 2002, ben cinque anni prima (8 novembre 2007) che venisse inglobata tra le banche del gruppo senese di Rocca Salimbeni.

Le Popolari, inoltre, sono una potenza di fuoco incredibile. Quelle costituite in forma di società cooperative sono 37 (nel 1993 erano cento) di cui 18 capogruppo che controllano 42 banche in forma di spa e 19 indipendenti. Rappresentano da sole un quarto del sistema creditizio italiano in termini di volumi intermediati con 9.435 sportelli, un milione e 280 mila soci, 84.140 dipendenti, 12 milioni e 350 mila clienti, 480 miliardi di attivo, una provvista di 445 miliardi. E nell’ultimo decennio, la quota di mercato delle Popolari è passata dal 10% al 28%.

E per capire l’aiuto fornito da queste banche alle aziende, è necessario sottolineare che dal settembre 2008 a oggi, gli impieghi sono arrivati a 390 miliardi (quota nazionale di mercato del 24%) cresciuti a un ritmo tendenziale del 4,5%, contro un dato generale di sistema del 3%. Perché questi istituti sono spesso così determinati a traghettare oltre la crisi persino le aziende (quasi) a rischio chiusura? Perché nelle Popolari, gran parte dei clienti sono anche soci e il successo di questi istituti di credito è quindi legato a doppio filo con la salute dei sistemi produttivi che a esse si affidano. Nei consigli d’amministrazione siedono, infatti, i rappresentanti locali delle associazioni di categoria. È tutta gente del posto, che ha contatti con le imprese i cui titolari sono anche soci delle loro banche. La banca supporta i suoi azionisti e, questi, a loro volta, aiutano l’azienda di credito a crescere.

SCALATA AL VERTICE. E sempre negli ultimi dieci-vent’anni, le Popolari hanno dimostrato un notevole dinamismo. Per capire che cosa è successo, basti pensare che tra i primi cinque gruppi bancari nazionali, due hanno al vertice una Popolare. E che cosa è diventato il Banco popolare, che ha al suo interno banche lombarde, piemontesi e venete. O Ubi Banca, che ha messo insieme le conquiste fatte dalle più grandi Popolari bergamasche e bresciane. O, ancora, la Popolare dell’Emilia Romagna i cui confini si estendono da nord a sud della penisola, isole comprese.

Sono state proprio le Popolari, soprattutto nel 2007, a ridisegnare la mappa del credito nazionale. A quei tempi, in Bankitalia, regnava il governatore Mario Draghi che, nell’assemblea Abi di quell’anno, aveva messo proprio queste particolari aziende di credito sotto i riflettori e fatto capire, senza molti giri di parole, che sarebbero state gradite aggregazioni per crescere e competere. Scadenza: un anno. Passarono, invece, solo pochi mesi da quella raccomandazione per concretizzare due storiche fusioni: la Popolare di Verona e Novara con la Popolare Italiana, e la Bpu con Banca Lombarda. Tanta fretta nel decidere il futuro fu determinata dal fatto che alcune delle maggiori public company si sentivano ormai strette fra i grandi poli, intimorite dalla prospettiva di diventare fragili prede di scalatori ostili, soprattutto esteri e, infine, si rendevano conto di essere penalizzate dall’assenza nel loro capitale di forti soci finanziari a causa del voto capitario.

PICCOLE COOP E "MEGAPOPOLARI". Il mondo delle Popolari così mutò radicalmente. E se non si ricordano queste vicende storiche, non si riesce a capire perché certi dogmi che regolano la vita comunitaria e coinvolgono gli interessi e le relazioni di oltre un milione di soci abbiano iniziato a essere messi in discussione, anche all’interno delle stesse Popolari. Le vicende ultime, poi, della Bpm hanno cristallizzato ulteriormente le distanze fra chi difende a spada tratta le norme scritte a difesa delle aziende di credito cooperative e chi le ritiene inadeguate al mercato. L’argomento è certamente delicato. Ma le Popolari, come si diceva, non sono più quelle degli anni Ottanta quando nessuno si sarebbe mai sognato di mettere in discussione gli storici statuti.

Anche perché - come si diceva sopra - aveva sempre giocato in loro favore un circolo virtuoso: cliente-socio-territorio. La banca, cioè, era sempre fortemente radicata in un territorio ben delimitato e i suoi clienti diventavano spesso anche i suoi soci più fedeli. Oggi, invece, se restano in attività piccole banche i cui azionisti sono gente del posto, altre Popolari hanno acquisito dimensioni notevoli dopo avere comprato aziende di credito al di fuori del loro territorio. Chi non ricorda la Lodi che era arrivata fino in Toscana incorporando la Banca Mercantile? Chi può dimenticare che la Banca agricola mantovana si era spinta ancora più al sud diventando il socio di maggioranza della Popolare della Marsina? E che dire della Popolare di Bergamo che si era annessa le Popolari di Ancona, Todi, Napoli e della Campania? Tanto per citare alcuni esempi.

TENTATIVI FALLITI. Da qui la domanda fin troppo ovvia: regge ancora per tutte le Popolari il concetto di localismo, da sempre enfatizzato come caratteristica saliente di una cooperativa di credito? No di certo. Infatti, diventa sempre più difficile sostenere, e in maniera generalizzata, che i clienti-soci delle Popolari abbiano un forte senso di appartenenza alla loro banca. Basta pensare agli azionisti di quegli istituti comprati da “Pop” più danarose e potenti: oggi possono, al massimo, votare qualche consigliere di amministrazione, mentre chi detiene veramente il potere abita a mille chilometri di distanza. Ed è anche per questo che varie forze politiche invocano, in Parlamento, una riforma delle Popolari stesse.

Ma quando si arriva al dunque, finiscono sempre in un nulla di fatto disegni di legge, lavori parlamentari e testi unificati. Infatti, in Senato, sono depositati numerosi disegni di legge che spaziano dal Pdl (Giorgio Costa) al Pd (Giuliano Barbolini), all’Italia dei Valori (Elio Lannutti e altri). L’unica proposta di rottura è stata quella dell’Idv che punta alla trasformazione delle Popolari in “spa di diritto speciale”. Anna Bonfrisco (Pdl), invece, ha messo mano a un testo unificato che salvaguarda il voto capitario «quale strumento di democrazia formale e sostanziale» e fa una rivisitazione prudente dei limiti al possesso azionario. Se una futura e possibile riforma ci sarà, sarà dominata, dunque, dalla cautela. Estrema.

Anche il contenuto del decreto sviluppo del dicembre scorso - e si tratta dell’ultimo intervento legislativo - è il massimo della precauzione: il tetto per il possesso azionario è stato elevato fino a un massimo dell’1%, ma con la possibilità per ogni singolo statuto di prevedere la vecchia soglia dello 0,5%, fermo restando comunque il voto capitario.

Ora bisognerà attendere un nuovo governo che abbia i numeri e la volontà per porre mano a una riforma annunciata da 40 anni e mai realizzata.

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