La Svizzera e i giochi sul franco

Vediamo se riusciamo a spiegare a un fanciullino (e a molti grandicelli che fanno finta di sapere tutto) cosa diavolo ha combinato Thomas Jordan

La Svizzera e i giochi sul franco

Vediamo se riusciamo a spiegare a un fanciullino (e a molti grandicelli che fanno finta di sapere tutto) cosa diavolo ha combinato Thomas Jordan. Intanto bisogna dire che Jordan è il signore che guida la Banca nazionale svizzera, che a sua volta governa la moneta locale. Il franco svizzero è sempre stato considerato una cosa seria e, al pari dell'oro, una sorta di bene rifugio. Me lo tengo in cassaforte perché so che non fa scherzi. E così è sempre stato. Quando nella terribile estate del 2011 mezza Europa, compresa l'Italia, stava crollando perché si temeva la fine della moneta unica, tutti si misero a comprare franchi svizzeri. Più li compravano e più aumentava il valore degli stessi. D'altronde, in giro per il mondo di franchi non ce ne sono poi così tanti. Ogni giorno si scambiano 5mila miliardi di dollari (ci vogliono solo tre giorni, dunque, per scambiare valute pari al totale della ricchezza mondiale prodotta in un anno intero). Solo il 5% di questi scambi è fatto in franchi svizzeri, la gran parte è in dollari, segue l'euro. Insomma, il franco è una frazione ridotta del tutto, ma pur sempre una frazione proporzionalmente superiore al valore dell'economia rosso-crociata (che rappresenta il 40% di quella italiana) e alla popolazione alpina, che in fondo è un granello fatto da 8 milioni di persone rispetto ai miliardi che abitano il pianeta. Dunque, questo franco è tosto, ma pur sempre una bazzecola. Ritorniamo a quell'estate di fuoco e all'interesse degli investitori per il franco. Esso si stava apprezzando un bel po', era sceso sotto la parità con l'euro. Solo cinque anni prima (ante crisi Lehman) era a quota 1,50 per euro. Jordan e colleghi, spinti dalla Confindustria locale e da certi settori della finanza, cercarono di costruire una diga artificiale a questo continuo apprezzamento della loro valuta e decisero di mettere una soglia a 1,20 sull'euro. Per farlo, in questi anni hanno speso un botto di franchi: più di 450 miliardi. Il gioco era relativamente semplice: prendo le riserve in franchi e le vendo per comprare titoli denominati in euro (principalmente Bund e Oat francesi, che non dovrebbero correre rischi di default). In effetti il franco si è sostenuto su quella soglia.

I turisti hanno continuato ad andare a Gstaad, i ballerini a prendersi un drink al Dracula e noi a comprarci gli Swatch. E, come derivata, la Banca nazionale svizzera ha contribuito ad abbassare i rendimenti e ad alzare i prezzi dei titoli di Stato europei: Germania e Francia ringraziano. Tutto perfetto. La tempesta del 2011 si è risolta. Il franco è a cuccia. Tanto che quasi un mese fa, il nostro eroe Jordan ammette in tv che avrebbe difeso la soglia di 1,20 «con la massima determinazione». Arriviamo così a questa settimana. Mercati aperti (dettaglio non di poco conto), metà mattina. La Banca nazionale svizzera dichiara di non comprare più euro. Pateticamente (è come curare un tumore con i fiori di Bach) dice anche che gli interessi diventano negativi: insomma, chi presta quattrini alla Svizzera deve pagare. Boom. Nel giro di pochi secondi il cambio con l'euro crolla del 30%. Non era mai successo. Alcune finanziarie saltano. Un paio di banche (Barclays e Deutsche) perdono centinaia di milioni. Svariati fondi soffriranno, quelli che avevano creduto alle parole di Jordan. Qualche grosso privato farà causa alla propria banca che non è stata in grado di liquidare in tempo le posizioni aperte. Cosa è successo tra la dichiarazione di Jordan e l'abbandono di quota 1,20? Semplice: gli Svizzeri hanno capito che Mario Draghi e la Bce avrebbero fatto sul serio. Dopo la recente sentenza europea che ha stabilito che la Banca di Francoforte potrà comprare titoli di Stato a piacimento, lo spettro (per gli svizzeri) del quantitative easing è reale. È uno spettro per un motivo banale. L'euro si indebolirà ulteriormente e con esso le valute che hanno deciso di legare le proprie sorti alla moneta unica (il franco che veniva protetto a quota 1,20). Dunque, le autorità monetarie elvetiche avevano due alternative: continuare ad andare a braccetto con l'euro, procedendo a ulteriori massicci acquisti, o mollare la presa. Hanno scelto la seconda strada.

E il motivo è banale, non facciamoci troppe favole: non hanno più munizioni per combattere la battaglia. Mettendola più semplicemente. Nessuno in Svizzera credeva a Draghi e in molti credevano a Jordan. Il primo ha fatto ciò che a tutti diceva (compro titoli di Stato) e il secondo ha dovuto smentirsi (non difendo più la mia moneta). D'altronde, se è vero che gran parte delle attività del bilancio della Banca nazionale svizzera sono denominate in euro, è vero che la recente svalutazione della nostra moneta costerà virtualmente alla Svizzera 60 miliardi di euro in perdite su cambi. Quante perdite potenziali avrebbe potuto ancora incamerare Zurigo? È come quel terribile gioco (si vede nei film) in cui due avversari corrono con l'auto a tutta velocità verso il burrone. Vince chi si ferma per ultima. La Svizzera si è fermata per prima. Ma semplicemente perché aveva finito la benzina. La morale è che in finanza conviene sentirsi mai dei fenomeni. Quando nel 2011 gli svizzeri hanno provato a calmierare il loro cambio, hanno avuto la presunzione di essere forti a sufficienza per riuscirci.

Quante crisi economiche e finanziarie dobbiamo raccontare per capire e convincerci che le valute non si possono domare? Per di più, se quella valuta è nobile, ma piccolina. Le Banche centrali hanno un ruolo importante (finché non si smentiscono clamorosamente come nel caso svizzero) e la moneta conta nei processi economici.

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