Politica

Emma

C’è qualcosa che stride nella politica dei Radicali. Sembra il rumore di un treno che corre su un binario posato per un altro tipo di motrice, i vagoni oscillano e l’impressione è quella del deragliamento imminente. L’Orient Express del governo che viaggia verso la Cina fa questo effetto se si pensa che al posto di capotreno c’è Emma Bonino. La donna che ha fatto della sua lotta contro la politica (dis)umanitaria di Pechino una bandiera, oggi guida l’entusiastica corsa italiana verso la Grande Muraglia.
Intendiamoci, la Bonino non ha certo dimenticato che quello di Pechino è un governo che non rispetta i diritti umani, ma a leggere le sue dichiarazioni di oggi sembra davvero remoto il tempo in cui la radicale senza paura manifestava di fronte all’ambasciata cinese in occasione della visita del Dalai Lama in Italia. Correva l’anno 1994 e la Bonino tuonava contro il primo ministro Li Peng colpevole di aver «diffidato il governo italiano e il presidente della Repubblica dal ricevere il capo spirituale dei tibetani». L’esponente radicale si mostrava determinata perché se «era scontata la reazione di Li Peng, così è scontata la nostra determinazione a voler essere amici della libertà, del Tibet e del popolo cinese». Amici del popolo, ma non di un governo oppressore. Oggi però nelle stanze radicali spira aria nuova, aria di governo e allora ecco che la Bonino scopre degli «inizi di dibattito» in Cina, come quello «più o meno pubblico proprio sulla pena di morte, in cui voci autorevoli cominciano a chiedere la moratoria e l'abolizione della pena capitale per i reati non di sangue».
Il cambiamento, la svolta (o giravolta) non è di poco conto se si pensa che Emma sprizzava tuoni e fulmini quando - dieci anni dopo il fattaccio di Li Peng, parliamo del 2004 - i radicali furono espulsi dall’Onu proprio per volere di Pechino e di alcuni Stati in cui la democrazia non ha mai brillato. Allora lei parlò di un’azione politica per «tentare di ribaltare il risultato dell’alleanza dei Paesi dittatoriali che hanno colto l’occasione per zittire la voce dei radicali all’Onu». Paesi dittatoriali. Paesi che possono cambiare, certo, ma non con la velocità dei radicali. Ieri (1996) si firmavano appelli per assegnare il premio nobel per la Pace a Wei Jingsheng, dissidente cinese condannato al carcere per «crimini controrivoluzionari», si manifestava (2001) davanti all’ambasciata cinese e a Montecitorio in sostegno degli appartenenti a Falun Gong (100mila aderenti arrestati, 280 torturati a morte, 20mila internati in campi di lavoro) e affermare nobilmente «mi sento una Falun Gong come voi, una militante della libertà», si chiedeva (2001) nell’aula solenne dell’Europarlamento il rispetto della libertà di religione per quelle personalità del clero della chiesa cattolica non ufficiale, per i pastori protestanti espulsi, la distruzione delle moschee, la messa al bando di Falun Gong, si aderiva (2003) alla campagna umanitaria di Human Right Watch, si denunciava «il controllo molto duro su internet».
Tutte cose che i radicali continueranno a fare, ma i toni sembrano essere cambiati. Oggi si certificano in nome della realpolitik i progressi del governo cinese verso il rispetto dei diritti umani, anzi, per usare il vocabolario boniniano, «degli inizi di dibattito» e francamente appare una frase tirata per i capelli. Grandi corporation come Microsoft e Google sono sotto accusa per aver concesso la censura sui contenuti al governo cinese, i radicali - che hanno una storia di tutto rispetto - dovrebbero essere forse più cauti perché è straniante tornare indietro con lo sguardo e con la cronaca e scoprire che la Bonino nel 2003 affermava: «È illusorio trattare con le dittature». Parole dure perché «trattare con le dittature per una loro evoluzione progressiva verso standard di democrazia politica è non solo sbagliato ma profondamente penalizzante per i militanti dei diritti umani di quei Paesi». La Bonino in questa occasione parlava di Aung San Suu Kyii, capo dell’opposizione birmana e premio nobel per la Pace, e riferendosi a lei spiegava che «è il simbolo dell’aspirazione alla democrazia non solo dei birmani, ma di tutti coloro che, dal Laos al Vietnam, dall’Iran alla Cambogia, alla Cina, alla Siria e via dicendo, soffrono quotidianamente di una repressione feroce mentre i nostri governi, in nome di una erronea e cinica realpolitik continuano a chiudere tutti e due gli occhi temendo di compromettere le rispettive quote di mercato in questi Paesi».


È una frase della Bonino che oggi, con tutto il rispetto per il ministro del Commercio estero, ci sembra abbia un sapore autobiografico.

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