Cronaca locale

EPOPEA DI UN POPOLO in cima a un grattacielo

Impossibile non pensare all’11 settembre. O meglio, alle migliaia di foto che ne sono scaturite, a partire dai capolavori di Joel Meyerowitz, che per mesi, unico reporter autorizzato, ha scattato nei pressi di Ground Zero oltre 8.500 foto. Se quelle erano le immagini di un disastro, queste di Lewis Wickes Hine, americano del Wisconsin considerato uno dei padri della fotografia, sono le foto che rappresentano - come bene indica il titolo della mostra allestita al Centro Culturale di Milano fino al 13 gennaio L’epopea di un popolo.
Il popolo in questione è ancora quello americano, immortalato durante quella che la storia dell’architettura considera una delle ultime imprese «epiche», la costruzione dell’Empire State Building. È il settembre del 1929, mancano pochi giorni al crollo di Wall Street, quando si firma il contratto per la realizzazione del grattacielo più alto del mondo, nel luogo in cui era ubicato il vecchio hotel Waldorf-Astoria.
Ideato dagli architetti Shreve, Lamb & Harmon Associates, verrà completato in quattordici mesi: «Un piano al giorno» per un totale di 102, 376 metri di altezza, 190mila metri quadrati, 6.400 finestre e 67 ascensori. Un’opera legata anche, in qualche modo, al World Trade Center, dato che rimase la più alta del mondo finché non fu completata la prima torre, a Lower Manhattan, nel 1972.
Lewis Hine fu il fotografo incaricato del reportage di questa impresa titanica e pur di non tradire lo spirito stoico e la spinta ideale delle centinaia di giovani impegnati nel lavoro, decise, per scattare le foto in mostra, di correre gli stessi rischi degli operai. Fotografò i lavoratori in posizioni precarie e rischiose - alcuni trovarono la morte su tralicci e putrelle di pochi centimetri, sospesi nel vuoto a centinaia di metri dal suolo, senza protezioni né sicurezza - e per ottenere le angolature migliori si sistemò in un cesto speciale appositamente creato per lui, che dondolava ad oltre trecento metri di altezza sopra la Quinta strada, come spiega nella bella introduzione al catalogo della mostra il console degli Stati Uniti, David Bustamante.
La mostra del Centro culturale raccoglie anche altre foto epiche di Hine, realizzate tra il 1905 e il 1917 per il National Child Labor Committee (Commissione nazionale per il lavoro minorile). Si tratta di immagini realizzate nei quartieri più degradati, sporchi e allucinati di New York e documentano le fatiche di centinaia di bambini sbarcati a Ellis Island in cerca di lavoro e impegnati come lustrascarpe, venditori di giornali, operai al telaio, raccoglitori di ostriche e patate, pescatori per pochi centesimi al giorno. Quel che colpisce, scontato ma vero, è lo sguardo dei piccoli: indomito e fiero, per nulla diverso da quello stesso segnato dalla fatica ma anche dalla consapevolezza del riscatto inquadrato da Hine negli occhi degli operai dell’Empire State Bulding.
In questo senso Lewis Wickes Hine, nato a Oshkosh, nelle campagne del Wisconsin, nel 1874 e morto in miseria nel 1940 a New York, senza lo straccio di un riconoscimento, è davvero un sensibile e innovativo fotografo della realtà.

Privo di retorica eppure fedele tramite della grandezza insita nei quotidiani gesti del lavoro, «maestro della fotografia della realtà urbana» al pari di altri, e meglio conosciuti, reporter per immagini che contrassegnarono i primi decenni del Novecento americano: dai fotografi come Margareth Bourke-White ed Evans Walzer, fondatore di Life, ai pittori come Georgia O’Keeffe, con le sue famose vedute di New York, e il più noto Edward Hopper, i cui silenziosi bar fiocamente illuminati e popolati da solitarie figurine notturne hanno fatto il giro dei poster di tutto il mondo.
L’epopea di un popolo
al Centro culturale via Zebedia 2
fino al 13 gennaio

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