Cronache

Essere o non essere Gaber

Gaber è sempre Gaber. È sempre lui, chiunque lo faccia e chiunque ne curi la regia. Ed è curioso notare, per esempio, come questo sia ormai un dato di fatto talmente evidente da essere addirittura assunto come assioma registico formale. Come per esempio nei due allestimenti che il l'Archivolto ha presentato quest'anno.
Il primo, il Signor G, aveva come protagonista Neri Marcorè, sempre più poliedrico nei ruoli. Come Gaber, Marcorè ha un fisico allampanato, dinoccolato ed uno sguardo nero e penetrante.
Nel caso de Il Dio Bambino, in scena alla sala Mercato del Teatro Modena, Eugenio Allegri ripropone l'elasticità e la fisicità del maestro. In parte, anche gli atteggiamenti. Ed è inevitabile, per chi abbia anche solo una volta visto Gaber interpretare Gaber, associare sempre alle battute, all'intonazione, alle pause, proprio quel viso lì. Ad occhi chiusi, in una sala buia, uno penserebbe che ci fosse sempre e solo Gaber. È ovvio che una simile fidelistica convinzione si fondi su una relazione quasi sinestetica, che poco o nulla ha a che fare con la reale (o presunta) analogia della fisicità. È più un effetto, obbligato, legato ad una particolare fusione tra pensiero ed intonazione che è, inequivocabilmente, quella cosa lì. Gaber.
Con questo ovviamente non si vuole sostenere che se uno qualsiasi salisse su di un palco e declamasse un testo di Gaber la magia si compirebbe automaticamente, ci mancherebbe altro. Ma diciamo che il fine (forse inconscio) di una messa in scena di un testo di Gaber mira proprio a quel risultato lì. Evocare Gaber. Del resto, Gaber scriveva per se stesso. Per cui, tutto sommato, l'immedesimazione diventa quasi una condizione imprescindibile.
Da qui parte la disamina della messa in scena firmata da Gallione e interpretata da Allegri. Regista raffinato, attore stralunato. Scenografia firmata da Guido Fiorato. Il monologo tocca i punti salienti del testo con grande efficacia, e Allegri collega racconti e dialoghi per quasi un'ora e mezza senza assolutamente perdersi o far calare la tensione. Gli atteggiamenti, le battute di chiusura, sono a volte evidentemente mutuate dal maestro. Però non si avverte la fastidiosa sensazione dell'imitazione. Un paio di scene, particolarmente efficaci e tese: l'evocazione del primo approccio andato «a buon fine» con lei sul fondo di una piscina vuota di un albergo in una località balneare fuori stagione, e l'assistenza al difficoltoso ed improvviso parto (sempre di lei). Due scene vissute col sudore che imperla la fronte e di un realismo che fa intimidire qualsiasi boria cinematografica. Va detto che soprattutto alla fine della seconda scena, a partorire con sollievo è anche un po' il pubblico (non foltissimo a dire il vero) e a coloro che magari ancora non hanno avuto il piacere di viverla di persona, passa quasi del tutto la voglia.
La scenografia, in questo contesto, è quasi superflua. Gaber non ha bisogno di nulla. Una sedia, un tavolino, una quadratura nera. Fiorato ha pensato invece di creare un contesto con richiami al testo. Il palco cosparso di fiori finti, ad evocare la passione di lei, una serie di sedie e tavolini da bar messi un po' così e da sistemare a seconda delle esigenze, un fondale semi trasparente in simil alluminio da tirare su e giù per creare a volte un'ambientazione, a volte un'atmosfera, a volte uno stacco. Dei piatti bianchi, scagliati per terra all'inizio (e quindi frantumati) che poi diventano pretesto per evocare difficoltà, terreno sconnesso, improvvisa mancanza di equilibrio.

Le luci, molto belle.

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