Tasse! L'infame parola è risuonata all'improvviso nei cieli benedetti delle Isole Cayman come la più bassa e volgare delle provocazioni; l'infelice battuta di un comico alla canna del gas. Tasse alle Cayman! Ovvero nel tempio dello sbafo fiscale per eccellenza; nella ridotta degli evasori di ogni continente e dei corsari di ogni filibusta finanziaria.
Ma dove, quando, come è stato possibile? Nei bar alla moda, sui bordi delle piscine, sotto i gazebo di paglia di cocco che fremono mossi dalla brezza tropicale, nei resort di lusso di George Town, non si parla d'altro, da un mese a questa parte. E dovreste vedere che facce sgomente, che menti allungati, che sguardi disillusi, quanti «governo ladro!» tra gli operatori finanziari, gli accountant, gli avvocati e l'immenso Barnum dei lavoratori al soldo del soldo calati da ogni angolo del globo in questo paradiso che rigurgita di dobloni che il buon Dio ha convogliato nel mar delle Antille, a sud di Cuba e al largo della Giamaica, come se non fossero già abbastanza fortunati, i «caymani», col clima e il panorama. Oddio, più che di tasse, a dir la verità, paventandosi un prelievo (il 10%) che a noi italiani - presi nello stivaletto malese disegnato un dì dal ministro Visco e perfezionato da ultimo dal Bocconiano di Ferro - somiglia a una mancia come quella che una volta si allungava ai lustrascarpe, bisognerebbe parlare di «commissione», di «quota d'iscrizione al club», di «gettone». Così infatti ha puntato a spacciarla il premier caymanese McKeeva Bush, presentandola come uno dei mezzi cui si pensa di ricorrere (si parte il primo settembre) per tamponare un increscioso buco nel bilancio statale. Ma non c'è stato niente da fare.
Tasse, dunque. Parola i cui effetti rischiano di vetrioleggiare per sempre l'allure dell'arcipelago rivelandosi più devastanti del peggiore tifone che in genere si assembla da queste parti e prende poi la rincorsa per scagliarsi a testa bassa verso la pancia della Florida. Ma quel che è più odioso agli occhi della comunità internazionale in panama e camiciole di lino, computer e flûte di champagne, è il carattere discriminatorio delle tasse che il governo progetta di varare. Esse infatti - i caymanesi non avendo neppure nella loro lingua locale un parola che definisca anche alla lontana il concetto di fisco- si abbatteranno esclusivamente sugli stranieri che guadagnano più di 36mila dollari l'anno: cioè tutti coloro che concorrono a formare la nebulosa di operatori finanziari che negli anni hanno messo in piedi la più efficiente officina finanziaria offshore del mondo. «E questo - ha raccontato Paul Fordham, un assicuratore che sei anni fa ha lasciato il freddo e la pioggia londinese per il paradiso caraibico - rischia di spaventare un sacco di gente e di mandare a gambe per aria il sistema». E cita il suo caso: voleva vendere una sua casa, ma l'acquirente, appena ha sentito la parola «tasse», si è dileguato senza lasciare traccia.
E certo è un cambiamento epocale per un territorio (44mila abitanti, 92mila compagnie straniere registrate, 235 banche, 758 compagnie d'assicurazione) dove nessuno aveva mai sentito parlare di tassazione diretta; dove le regole sono come i semafori per i napoletani (un consiglio) e dove il denaro affluito da tutto il mondo ha rivoltato come un calzino l'economia delle isole, basata un tempo sulla pesca, la fabbricazione di cordami e un po' di turismo.
Parlare di esodo alle viste sembra però un po' azzardato. «L'industria finanziaria delle Cayman - ha detto Richard Murphy, direttore di una azienda di consulenza fiscale britannica all'Associated Press - si basa essenzialmente sugli investitori internazionali. Ci sarà un prezzo in più da pagare, ma si andrà avanti come prima». Non tutti la pensano come Murphy.
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