Chen, il dissidente cieco che ha vinto su Cina e Usa

Chen, il dissidente cieco che ha vinto su Cina e Usa

Il piccolo grande uomo ce l'ha fatta. Ha resistito al Moloch cinese, è sgusciato tra le maglie della repressione, ha piegato il cinismo di un'amministrazione americana pronta a dimenticare i diritti umani nel nome dei grandi commerci. Da oggi il 40enne dissidente cieco Chen Guangcheng è nella Grande Mela, pronto ad insegnare a tutti noi occidentali che volere è potere. Nessuno può dirlo meglio di lui. La fuga dal villaggio nella provincia di Shandong dove viveva recluso dal settembre del 2010 è il simbolo della sua determinazione. Il passaporto consegnatogli dai funzionari cinesi che ieri l'hanno prelevato dall'ospedale per portarlo all'aeroporto è l'emblema della sua vittoria. Lo sbarco nell'aeroporto di Newark con la moglie Yuan Weijing e i due figli, è il suo trionfo.
«Ho mille pensieri per la testa» rimuginava Chen mentre attendeva quel volo verso la libertà. Come non credergli. Volontà e passione sono le sue uniche armi sin dai primi anni di vita quando un'infezione al nervo ottico lo sprofonda nel buio. A Dongshigu, lo sperduto villaggio natale della provincia di Shandong, un bambino cieco è un bimbo senza futuro. Chen non tocca un libro fino a 13 anni, quando la famiglia riesce finalmente a trovargli posto in un istituto per ciechi.
Da quel momento Chen brucia le tappe, conquistandosi in pochi anni una laurea in agopuntura. Ma lo studio accende anche la passione. Prima lancia una campagna contro le fabbriche che avvelenano il fiume del suo villaggio, poi nel 2005 inizia la battaglia contro gli aborti forzati e le sterilizzazioni di massa imposte alle famiglie della provincia di Shandong. La passione, la rabbia, l'indignazione di quel piccolo uomo cieco sono macigni in una palude d'immobilismo e soggiogazione. L'entusiasmo di quell'uomo che non vede, ma s'indigna risveglia la sonnacchiosa provincia di Shandong, la spinge a ribellarsi contro una legge che sovverte il più elementare diritto naturale e impedisce alle famiglie di metter al mondo più di un figlio.
Quel ragazzo cieco che di notte studia come aggirare il diritto comunista e di giorno guida un'autentica class action intimorisce le autorità del Shandong, le spinge a reagire con la rabbia di un mostro ferito. Chen la paga con una condanna a 4 anni e tre mesi di galera. Non finisce lì. Una volta fuori dal carcere si ritrova prigioniero della propria abitazione, guardato a vista, tormentato, bastonato dai gorilla del partito. La notte del 24 aprile Chen dice basta. Scala il muro costruito intorno alla sua residenza, salta giù, si rompe un piede, arranca fino al villaggio più vicino, sale sull'auto di alcuni amici, inizia una drammatica fuga di 800 chilometri seminando le guardie e bussando infine all'ambasciata statunitense.
Ma la salvezza è lontana. La moglie Yuan, ostaggio delle autorità di Shandong, rischia la vita. Gli americani, che in quei giorni hanno organizzato a Pechino un cruciale vertice economico alla presenza del segretario di stato Hillary Clinton, sono ben felici di usare quel pretesto per convincerlo a consegnarsi alle autorità. Fanno però l'errore di lasciargli due telefoni. Grazie a quelli e alla propria disperazione Chen chiama due membri del Congresso americano.
La voce di quel piccolo uomo scaricato dall'ambasciata e nuovamente prigioniero in una stanza d'ospedale risuona nel «sancta sanctorum» della politica, fa capire agli Stati Uniti che l'amministrazione Obama è pronta a svendersi anche l'immagine d'un America paladina della libertà e dei diritti umani. Risvegliatasi sull'orlo di quel baratro ideale l'America ritrova le proprie energie tratta un accordo con la Cina.

Grazie a quell'accordo Chen e la sua famiglia hanno potuto dire addio alla paura e della repressione. Ma Chen non deve ringraziare nessuno. È l'America, piuttosto, a doversi inchinare di fronte a questo piccolo grande uomo cieco sussurrandogli un grazie per averla aiutata a ritrovare la strada smarrita.

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