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L'India sogna di venir promossa a grande potenza mondiale, ma rischia di vedersi retrocessa a bieco Paese canaglia. Le limitazioni alla libertà di movimenti e la minaccia di arrestare l'ambasciatore italiano Daniele Mancini rappresentano uno dei più gravi casi di violazione dell'immunità dall'approvazione, nel 1961, della «Convenzione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche» firmata anche da Nuova Delhi. Pensiamo all'assalto del novembre 1979 all'ambasciata di Teheran da parte di un gruppo di studenti che tenne in ostaggio il personale americano per 444 giorni. Il paragone con la controversia italo-indiana può sembrare pretestuoso ed esagerato, ma non lo è se si esamina la questione dal punto di vista formale. Allora la Repubblica Islamica si limitò a non intervenire e si guardò bene, inizialmente, dal riconoscere ufficialmente la presa d'ostaggi. Nel caso indiano la violazione avviene, invece, per ordine di un'istituzione come la Corte Suprema. Così facendo la Corte calpesta per due volte di seguito la Convenzione di Vienna. La prima quando ordina di limitare la libertà di movimenti di Mancini. La seconda quando autoratifica e conferma la propria decisione. Oggi dunque - a differenza di quanto successe in Iran nel 1979 - è un'istituzione dello Stato indiano, dunque lo Stato stesso, a violare palesemente il diritto internazionale. Il tentativo di ricorrere al paragrafo 3 dell'art. 32 della Convenzione di Vienna, che limita l'immunità qualora un diplomatico sia coinvolto in una procedura giurisdizionale, non attenua le colpe indiane. Il cavillo varrebbe se l'ambasciatore invocasse l'immunità dopo aver violato un contratto o delle obbligazioni private. Ma Daniele Mancini non sta truffando né derubando nessuno. Si limita a svolgere i compiti pertinenti ad un ambasciatore. Proprio per questo suo ruolo la Corte Suprema indiana gli chiese il 9 marzo di firmare a dichiarazione in cui si garantiva il rientro dei marò. La dichiarazione non era un contratto di diritto privato, ma un atto tra due Stati sovrani.
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