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Egitto: ecco perché fa meno notizia della crisi siriana

Non c’è giorno in cui giornali e telegiornali non si occupino della crisi siriana anche se da diciotto mesi questa crisi è in stallo salvo per il numero sempre più crescente di vittime. Questa crisi fa notizia, storna l’attenzione da quello che succede in Egitto, paese chiave della regione. Perchè?

I media sono per loro natura selettivi e la pubblicazione o l’eliminazione della notizia può essere più significativa per il lettore del contenuto della notizia stessa.

Ne abbiamo una prova nel modo in cui i media si occupano delle vicende del Medio Oriente dove la tragedia – banalizzata dalla sua ripetibilità - fa aggio sulla normalità che invece potrebbe rivelarsi politicamente e umanamente più determinante.

Non c’è giorno in cui giornali e telegiornali non si occupino della crisi siriana, del suo carattere rivoluzionario anche se da diciotto mesi questa crisi è in stallo salvo per il numero sempre più crescente di vittime – più o meno innocenti – come sempre succede nelle guerre civili.

Questa crisi fa notizia, storna l’attenzione da quello che succede in Egitto, paese chiave della regione: non solo perché resta valido il detto che “non si può fare la guerra senza la Siria ne la pace senza l’Egitto” ma perché l’Egitto coi suoi 80 milioni di abitanti rimane il più grande stato della nazione araba. Ed é in Egitto che si gioca l’avvenire della regione e probabilmente del Mediterraneo.

Perché?

L’Egitto è l’unico stato nazionale della regione. Tutti gli altri sono conglomerati di etnie, tribù, religioni che per coesistere hanno richiesto l’intervento dello straniero o di un regime dittatoriale etnicamente minoritario. La Turchia stessa – il paese islamico economicamente più sviluppato della regione e che si pone a modello degli altri - è alle prese con conflitti interni ed esterni che hanno vanificato l’ambizione del premier Erdogan di sviluppare una strategia di pace con tutti i suoi vicini.

L’Egitto è stato fra le due guerre mondiali (assieme all’India) antesignano dell’anticolonialismo britannico; con Nasser del pan arabismo e del terzomondismo; da due anni a questa parte è stato grande protagonista della rivoluzione araba sulla piazza Tahrir. Oggi ha portato il più grande movimento politico, religioso, culturale- quello dei Fratelli musulmani- dalle galere al governo impegnandolo nella realizzazione del primo governo islamico non laico moderno.

Se il suo leader, il nuovo presidente egiziano Morsi riuscirà a vincere questa sfida è tutto ancora da vedere. Le difficoltà che deve superare sono immense. Ma ciò che questo ingegnere, diventato suo malgrado, capo di governo sta facendo senza strombazzamenti, dovrebbe ricevere maggior attenzione perché solo in Egitto – e non è detto che ci riesca – può nascere “un nuovo Medio Oriente”.

Sinora Morsi non ha commesso sbagli e ha preso decisioni coraggiose che, forse, in futuro potrebbero essere considerate storiche:

  1. Ha evitato lo scontro che pareva inevitabile con i militari trasferendo il dibattito con loro dalle strade alle aule dove si discute la nuova costituzione

  2. Ha riallacciato i rapporti con l’Iran pur chiarendo che non ci può essere nessun compromesso fra l’Egitto sunnita e l’Iran shiita

  3. Ha respinto il “modello” laico turco come il più adatto ad uno stato islamico moderno

  4. Senza mai pronunciare il nome di Israele ha ripristinato i rapporti con esso inviandovi un nuovo ambasciatore e agendo da mediatore fra Gaza e Gerusalemme cercando di contenere la rinnovata tensione senza per altro allentare il controllo sui traffici di armi dei palestinesi

  5. Si sforza di riprendere in mano la situazione nel Sinai negoziando tanto con le tribù beduine ribelli quanto con Israele per il rispetto del trattato di pace in questa turbolenta provincia.

Morsi capisce che solo tranquillità e sicurezza possono dare all’Egitto la possibilità di affrontare i suoi problemi economici e demografici; sa di dover ripristinare il traffico turistico da cui dipendono centinaia di migliaia di operatori economici; ed è cosciente del fatto che per ottenere investimenti, per riattivare una borsa crollata ha bisogno di credibilità interna e internazionale e di stabilità. Si tratta di uno sforzo immane da cui dipende il futuro della regione. Uno sforzo che però non fa notizia e su cui i così detti “formatori di opinione pubblica” laici e progressisti preferiscono tacere.

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