Un comunicato scarno, di poche ma sentite righe. Poco più di un telegramma indirizzato al governo e al presidente islamista Mohamed Morsi, espressione dei Fratelli musulmani, e nel volgere di una ventina di secondi il mondo intero ha saputo per chi suona la campana, al Cairo e dintorni. Le manifestazioni oceaniche, i morti in piazza, il montante clima da guerra civile hanno infine convinto i vertici delle Forze armate che si sono schierate con l'opposizione lasciando a Morsi e al suo governo un unico, stretto viottolo da battere: quello delle dimissioni, in vista di nuove elezioni.
In una dichiarazione letta alla televisione di stato, il comando generale dell'esercito ha ribadito la richiesta che «le domande della popolazione siano soddisfatte» e ha concesso a Morsi («a tutti i partiti», in verità, come si dice con una sorta di felpata, ecumenica cautela nel comunicato) «48 ore, come ultima possibilità, per assumersi la responsabilità delle circostanze storiche che il Paese sta vivendo».
Il tono, prima ancora delle parole, sembra non lasciare dubbi. «Se le richieste del popolo non fossero soddisfatte entro questo periodo...(le forze armate) annunceranno una futura roadmap e una serie di provvedimenti per supervisionare la sua realizzazione», conclude lo Stato maggiore. Un ultimatum in piena regola, tanto che in serata, secondo fonti della presidenza, Morsi ha incontrato il ministro della Difesa e capo delle forze armate al Sisi, insieme al premier.
Le parole dei militari sono cadute come balsamo sulle teste delle migliaia di manifestanti che affollavano piazza Tahrir. Due secondi di attonito silenzio, giusto il tempo di realizzare. Poi un immenso boato si è arrampicato fino al cielo, portandosi dietro la tensione di queste ore e la felicità dei vincitori. «Il popolo vuole la caduta del regime», gridava la gente, mentre a centinaia si abbracciavano e si baciavano. E gli elicotteri militari hanno sorvolato la piazza con le bandiere egiziane.
L'America sembra condividere la mossa dell'Esercito, ed è lo stesso Obama, in visita in Tanzania, a chiedere il rispetto della volontà popolare. Solo in quel caso - e Dio sa quanto bisogno ha l'Egitto dei dollari americani - il Paese avrà i promessi aiuti da Washington, ha detto il presidente Usa. La tensione resta alta, mentre nel cuore della metropoli lievita il numero di manifestanti che hanno accolto l'invito del Fronte di salvezza nazionale di opposizione a «tenere la piazza» fino a quando il governo non avrà annunciato le sue dimissioni. Che il regime messo in piedi un anno fa dai Fratelli musulmani stesse malinconicamente franando lo si era capito fin dal primo pomeriggio, quando cinque ministri (Turismo, Ambiente, Comunicazione, Affari legali e Risorse idriche) avevano preso il largo dal governo rassegnando le dimissioni. Intanto si contano i morti, saliti a venti sommando i cinque di Asyut, nell'omonima provincia dell'Alto Egitto, morti nei disordini scoppiati nei pressi della locale sede del Partito per la libertà e la giustizia, braccio politico degli stessi Fratelli musulmani.
È una calma tesa, foriera di possibili, nuovi scoppi di collera e violenza, quella che domina sulle principali piazze del Paese in rivolta contro la ricetta islamista, economicamente fallimentare, promossa da Morsi. Quarantotto le ore concesse dalle forze armate a Morsi e compagni. Esattamente la metà, 24 (fino alle cinque di oggi), quelle accordate dal movimento di ribelli Tamarod al governo. Nel pomeriggio, un'altra notizia che dice del precipitare di una situazione ormai insostenibile: l'arresto di 15 guardie del corpo di uno dei leader dei Fratelli musulmani, Khairat al-Shater, contro la cui abitazione, secondo i suoi seguaci, la polizia avrebbe sparato numerosi colpi d'arma da fuoco.
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