Dodici ore, dalle otto del mattino alle otto di sera, per decidere da quale parte stare: dentro o fuori dall’euro. Nelle mani dei dieci milioni di greci chiamati oggi alle urne, la scheda elettorale peserà come un macigno, perché mai l’appuntamento con il voto è stato così decisivo per le sorti del Paese. Tutti guardano ad Atene, per un giorno caput mundi, tutti aspettano di vedere dove si fermerà la pallina in questa roulette dell’incertezza. Exit poll subito dopo la chiusura dei seggi, poi le prime proiezioni attorno alle 22: forse già a quell’ora sarà possibile capire che aria tira, e se le banche centrali mondiali terranno il dito lontano dal grilletto della liquidità monstre, con cui anestetizzare i mercati ed evitare il panico di massa.
Sulla Grexit, un punto di non ritorno più volte evocato nelle ultime settimane, le scommesse sono però in calo. Nota positiva, nonostante il probabile sfarinamento delle preferenze finirà per non assicurare a nessun partito i numeri sufficienti a governare senza aiuti esterni. I sondaggi recenti hanno visto alternarsi nel ruolo di vincitori il partito conservatore Nea Demokratia guidato da Antonis Samaras e la sinistra radicale di Syriza. Il diavolo e l’acqua santa, convinzioni opposte su come regolare con l’Europa i conti del dopo-voto. Syriza ha ammorbidito le posizioni estremistiche di qualche tempo fa: vuole restare nell’euro, ma riscrivendo totalmente il secondo piano di aiuti con cui la Grecia, in cambio di una più che draconiana cura a base di austerity, ha ottenuto 130 miliardi di euro. Una specie di ossimoro. Samaras è al contrario convinto di poter strappare una revisione soft delle condizioni imposte ad Atene, ottenendo in particolare una proroga per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione del debito e un pacchetto di misure per stimolare la crescita dell’economia. Una posizione che oltre a coincidere nella sostanza con quella del Pasok, lo storico partito socialista ellenico guidato dall’ex ministro delle Finanze, Evangelos Venizelos, si va facendo strada anche tra alcuni governi dell’Eurozona. «Credo che molti Stati vogliano rinegoziare le condizioni con la Grecia», ha rivelato ieri il premier italiano, Mario Monti. A far la voce grossa è però sempre la Germania: «Serve un governo che onori gli impegni presi con l’Unione Europea», ha detto la Cancelliera, Angela Merkel, che ieri ha avuto col presidente francese François Hollande un colloquio telefonico «fruttuoso» sulla situazione greca in vista del G20 di domani in Messico. Ancora più chiaro il suo vice, Philipp Roesler: «Qualsiasi futuro governo dovrà continuare le misure di austerità concordate e il corso delle riforme. Senza di esse, non ci potrà essere altro denaro».
Lo scenario più probabile (e meno indolore per Eurolandia) è un esecutivo di coalizione formato da Nea Demokratia, Pasok e democratici di sinistra del Dimar. Insomma, un governo di salute nazionale che eviterebbe l’incubo di una terza tornata elettorale. Un’ipotesi che nessuno si può permettere. Tempo per lo stallo politico non ce n’è più: un Paese dove sono rimasti in cassa due miliardi, appena sufficienti per pagare stipendi e pensioni fino al 20 luglio, non può prolungare ulteriormente l’incertezza. Che, tra l’altro, sarebbe un formidabile propellente alla corsa a svuotare i bancomat, da cui sono usciti una media di 700 milioni di euro al giorno nell’ultima settimana. È lo specchio di un Paese stremato dai tagli, dalla recessione, dai troppi disoccupati e terrorizzato dall’idea di veder decurtati di almeno il 50% i risparmi in caso di ritorno alla dracma.
Ecco perché il voto di oggi è diventato un referendum pro o versus euro.
E ha ragione l’ex premier Giorgos Papandreou quando ricorda che a fine 2011 propose proprio una consultazione popolare, bocciata sul nascere dalla Germania, sulla permanenza nella moneta unica. Allora si poteva ancora sperare che un’intera nazione facesse quadrato attorno a un’idea di Europa. Oggi si va invece al voto della paura. E il mondo tiene il fiato sospeso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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