Quindici cadaveri dilaniati sul lastricato della stazione di Volgograd. La testa di una donna kamikaze rotolata a poca distanza. Tutt'intorno schegge e chiodi mescolati a grumi di sangue e resti umani, tra i lamenti dei feriti e le urla delle sirene. È lo scenario dell'ultima sfida. Una sfida annunciata già a luglio quando Doku Umarov, capo di quell' «Emirato del Caucaso», sigla degli ultimi terroristi islamisti sopravvissuti alla rivolta cecena, annunciò di voler colpire i «satanici» Giochi Olimpici Invernali. Una sfida scattata ieri quando un'attentatrice suicida ha innescato l'ordigno cucitole addosso dagli armieri di Umarov, pare con l'aiuto di due complici, un uomo di nome Pavlov, che portava uno zaino sulle spalle, e un'altra donna, Mikulin, anch'essi morti nell'attacco. Quella sfida, sanguinaria e crudele, iniziò nell'agosto del 1999 quando un Vladimir Putin, appena nominato premier, giurò di non concedere più tregua ai ribelli ceceni. Oggi, dopo migliaia di morti, la rivolta cecena non esiste più. Eppure a 14 anni di distanza, quella sfida, apparentemente vinta e ipotecata, rischia di trasformarsi nella roulette russa del presidente. Più s'avvicina il 7 febbraio, data d'inizio dei Giochi, più a Doku Umarov e al suo manipolo di terroristi potrebbe bastare un solo, unico colpo per colpire al cuore lo «zar» che al pari di Alessandro II sognava di «ripulire» il Caucaso.
Un attentato come quello di ieri, messo a segno all'interno dell'area di sicurezza destinata a garantire la sicurezza degli impianti olimpici e degli sportivi di tutto il mondo, basterebbe ad incrinare il progetto imperiale di Vladimir Putin. Un solo kamikaze, un solo attentato firmato dai terroristi separatisti vanificherebbe il tentativo di trasformare i Giochi Invernali nel palcoscenico della rinata potenza russa, dimostrerebbe che, al contrario di quanto ripete il presidente russo, il separatismo ceceno e il fondamentalismo caucasico sono incubi assai presenti. Così, mentre al suo nemico basta progettare un unico colpo, Vladimir Putin può solo far girare il tamburo della pistola sperando che il proiettile fatale non parta mai.
Ma quel duello trasformato in roulette è una sfida a tutte le regole della statistica e della sicurezza. Le Olimpiadi invernali di Sochi si svolgono su un territorio tutt'altro che sicuro, tutt'altro che neutrale. Appena fuori da quella surreale città di vacanze decorata da palmizi e giardini, s'innalzano i contrafforti di un Caucaso selvaggio e ribelle che arriva alla Cecenia e al Daghestan. Ma per capire perché un principe degli scacchi come Putin abbia scelto di far svolgere lì i Giochi non bisogna forse pensare esclusivamente a un imperiale volontà di rivalsa. Forse Putin non vuole solo dimostrare d'aver domato l'unica rivolta capace di minare la coesione territoriale, etnica e religiosa della Grande Russia. Forse, come ripetono alcune voci circolate a Mosca, il nuovo Zar considera i Giochi di Sochi l'inevitabile prologo del definitivo addio alla Cecenia e al Daghestan, ovvero alle repubbliche meno integrabili nella grande Russia del 21mo secolo. Per realizzare quel progetto Mosca avrebbe già siglato un intesa con Baku per l'utilizzo degli oleodotti dell'Azerbajan. Un'intesa capace di rendere superflui e obsoleti sia gli impianti di smistamento petrolifero presenti in Cecenia, sia lo sfruttamento del milione di tonnellate di greggio estratto da quelle parti. Insomma dopo Sochi Putin potrebbe annunciare un rivoluzionario ritiro unilaterale dal Caucaso ribelle.
Ma per farlo deve prima dimostrare di stringere in un pugno di ferro anche le province più riottose. E forse per questo ieri il nemico-terrorista Umarov ha colpito a Volgograd, città simbolo - quand'ancora si chiamava Stalingrado - della capacità russa di sopravvivere ai propri avversari.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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