Una volta superato lo choc del papa polacco, quel Karol Wojtyla che destò sgomento e sconcerto anche fra i vaticanisti, un presidente degli Stati Uniti nero, quel 4 novembre del 2008, non fece poi così tanta impressione. Eppoi il tipo era (è) un nero per modo di dire. Lo è come lo era Harry Belafonte, o come lo è Denzel Washington, o Will Smith, o il Sidney Poitier di Indovina chi viene a cena , se qualcuno se lo ricorda. Un nero «carino», simpatico, accattivante, magnificamente integrato nell’ American way of life dei signori, di chi se lo può permettere. Un nero quasi bianco, se si può dire.
E poi di Obama piaceva la serietà, la compostezza, il fascino, lo sguardo cinematografico, magnetico e un po’ sfrontato che aveva Bill Clinton (infatti i due si piacciono un sacco). Magnificamente centrati e ben scelti parvero anche gli slogan di quella campagna, come quel «Yes we can» che fece inorgoglire Veltroni, nemmeno l’avesse inventato lui.
Un ruolo mica mal importante ebbero anche la moglie di Obama, donna non priva di glamour, spigliata e vagamente sexy, e le figlie carine, con le mani giunte sulla vestina e l’inchino garbato quando a casa vengono la nonna o persone importanti. Insomma una famiglia perfettamente americana: gente istruita con le poltrone di pelle nello studio d’avvocato, la casa bella, il barbecue regolamentare e la macchina lunga. A qualcuno lui parve «un po’ abbronzato »: detto così, per il gusto della battuta, ma era il 2008, diamine. Anche un nero (se poi era fico e affascinante come un Denzel Washington) poteva ben aspirare alla poltrona number one e all’Air force One e a tutte le altre cose che
finiscono in One dell’americano number one .
Quattro anni dopo, la musica è oggettivamente diversa. Partiti con uno swing frizzante, è finita in uno slow vagamente malinconico. Ci sarà stata di mezzo anche la crisi economica, e gli scandali finanziari, e i subprime e i derivati che hanno rivoltolato nella polvere il mito dell’invincibile corazzata americana; e la guerra in Afghanistan che non finisce mai, e che quando finirà bisognerà avere il coraggio di dire che l’han vinta quegli altri: ma la «novità», il sogno incarnato da Barack Hussein Obama, nato a Honolulu nel 1961; lo slancio ideale incarnato da quel presidente oggettivamente diverso sono svaporati a poco a poco. E man mano che i capelli gli si imbiancavano è venuto somigliando a un uomo qualunque, uno di noi, uno «normale». Non quel Nembo Kid della politica che aveva fatto sognare un mondo più giusto, più equo, più pacificato, più pulito. Sotto la sua presidenza è stato catturato Osama Bin Laden, la bestia nera degli americani dopo la storia delle Torri Gemelle, nel 2001. Ma il modo in cui lo sceicco fu eliminato (100 contro uno, con la furbata degli spioni e dei satelliti) tolse agli americani il gusto del gesto eroico, cavalleresco, «sportivo», di cui vantarsi. E infatti la cosa venne fatta passare quasi sotto traccia, con una raffica di omissis, senza tamburi né trombe. Nel 2009 gli diedero il premio Nobel per la pace. E noi, insieme con lui, siamo ancora qui a domandarci perché. Oggi, a Chicago, Barack Obama celebra la partita di basket regolamentare con i vecchi amici.
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