L'idea di Detroit contro il crac: coprire i debiti con Caravaggio

La città è in fallimento, il curatore azzarda una cura che in Italia provocherebbe una rivolta: vendere la collezione di capolavori

Vocazione di san Matteo (San Luigi dei Francesi, Roma)
Vocazione di san Matteo (San Luigi dei Francesi, Roma)

Valuta l'arte e mettila da parte, potrebbe servirti, in tempi di vacche magre. È questa la lezione che viene da Detroit, dove le vacche non sono magre, sono proprio clinicamente anoressiche, secche come le casse della città. Che infatti recentemente ha dichiarato bancarotta. L'ormai ex capitale americana (quindi mondiale) dell'auto ha fatto ciò che non fecero New York nel '75, Cleveland nel '78 e Filadelfia nel '91. Da quelle parti, piuttosto che subire l'onta del fallimento si preferì mediare, dilazionare, mendicare pietà presso i creditori. Invece il cuore industriale del Michigan, che avrebbe urgente bisogno di tre o quattro by-pass per tornare a battere con regolarità, sta pensando di alleggerire la propria situazione di insolvente vendendo i gioielli di famiglia. Custoditi al Detroit Institute of Arts, sono in tutto la bellezza di 60mila opere, inclusi un Brueghel il Vecchio (rilevato, ironia della sorte, soltanto tre anni fa dal Prado di Madrid per 7 milioni di euro), un Caravaggio, un Rembrandt, un Matisse. «Abbiamo anche un van Gogh - dice il direttore Graham Beal quasi con le lacrime agli occhi -. Venne acquistato nel '22 e fu la prima opera del maestro olandese a diventare patrimonio di un museo statunitense. E adesso dovremmo venderlo?».

Anche sì, lascia intendere Kevyn Orr, il curatore fallimentare chiamato al capezzale della città moribonda. Il quale si è già rivolto agli esperti di Christie's, la celebre casa d'aste, per fissare un prezzo di massima a tutto quel ben di Dio. Il colossale expertise, costato circa 150mila euro, ha mandato su tutte le furie, oltre che mister Beal, gran parte della popolazione. Tuttavia, «c'è del metodo in questa follia», come direbbe Shakespeare. Perché lo scopo è semplice: stabilire quali e quante opere sono di esclusiva proprietà del comune, e quindi possono essere alienate senza che poi salti su qualcuno ad accampare diritti. Di fronte a 16 miliardi di dollari di debiti, ragiona Orr che in questa storia ha il ruolo del «cattivo», la prima cosa da fare è contare sulle risorse interne. Anche perché dall'altra parte del tavolo hanno l'acquolina in bocca al solo pensiero di mettere il cappello su un Picasso, un Calder, un Mirò, un Ernst, gli altri big della collezione. Il malloppo totale ammonterebbe a 2,5 miliardi di dollari.

Ma attenzione, lo scenario che vede i ricchi barbari assaltare le sale del DIA portando via questa o quella preda è un film di fantascienza (o dell'orrore). «Non abbiamo interesse a vendere arte - ha spiegato Bill Nowling, il portavoce di Orr che fa la parte del “buono” -. Ma quadri e statue sono proprietà della città e abbiamo la responsabilità di esser sicuri che sappiamo qual è il loro valore». E poi ha aggiunto, sibillino: «È duro dire a un pensionato: “ti riduciamo l'assegno mensile del 30 per cento, però il valore dell'arte è eterno”...». Samuel Sachs II, direttore del DIA dall'85 al '97, non ci sta e butta lì una domanda retorica di sicuro effetto: «Se potessimo vendere gli ospedali e l'università lo faremmo?».

Insomma, mentre qui in Italia fa discutere non la vendita di un pezzo pregiato, perché a quel punto non siamo ancora arrivati, ma il suo restauro (vedi Colosseo), negli Stati Uniti

sono alle prese con un dilemma economico e morale.

Forse ci sta meditando anche la versione monumentale del Pensatore di Rodin, posta all'entrata del museo. E a giudicare dall'espressione i suoi non sono pensieri allegri.

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