
Avevano diciannove anni, e solo questo giustifica che vengano loro concesse le attenuanti generiche. Ma tutto il resto, tutta la storia terribile di quella notte jn Costa Smeralda, e anche quanto è accaduto dopo, l’assenza di ogni ombra di pentimento, la scelta di infangare e vilipendere la loro vittima, dice che Ciro Grillo e i suoi tre amici Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia devono essere colpiti con tutta la severità della legge. Sono colpevoli di stupro di gruppo, tutti allo stesso modo, chi abusò di S. e chi assisteva, rideva, fotografava. Nove anni di carcere, questa è la pena che il procuratore Gregorio Capasso chiede al tribunale, alla fine del secondo giorno di requisitoria, di infliggere a ognuno dei quattro ex ragazzotti genovesi, ormai divenuti uomini fatti. Che però ieri non trovano la forza di essere presenti in aula ad ascoltare l’accusa presentare il suo conto. La parola dalla settimana prossima passa avevano alzato il gomito, e l’avevano fatto proprio per quello: ma, oggi, chi il giorno dopo si risveglia e realizza l’ accaduto, giudicandolo sgradevole, può andare dai carabinieri e sporgere denuncia. Questo dice la giurisprudenza, punto. E punisce anche chi, magari, non partecipa ma assiste: non c’è attenuante. E qui, noi, ora, non si giudica la legge: ma sappiamo che esiste per motivi precisi, ed è fatta in un certo modo per ragioni precise, in un’epoca precisa. «Doveva essere un gioco» ha detto a Ciro Grillo agli inquirenti. Magari lo è stato, magari, però, a un certo punto, è diventato un’altra cosa. È persino possibile che si chiami stupro: e a un giudice, di quale generazione sei, non gliene frega niente. Hanno giocato. È andata male a lei. È andata male a loro. Però nove anni sembrano, e sono, una vita.
Era una conclusione nell’aria, dopo la durezza con cui lunedì Capasso nella prima parte della sua requisitoria aveva demolito uno dopo l’altro i baluardi difensivi dei quattro, la tesi secondo cui S. era allegra, lucida, consenziente; e nelle ore successive alla notte di sesso avrebbe continuato a andare in giro con i quattro come se fossero vecchi amici. Non è vero, dice la Procura di Tempio Pausania. Contro gli imputati non c’è solo la parola di S., la vittima, che pure ha ricostruito in aula, senza mai contraddirsi, gli abusi di cui, uno dopo l’altro, i ragazzi la fecero oggetto, dopo l’ultimo beverone di vodka. A sostegno del suo racconto ci sono i riscontri emersi durante le indagini e il processo. E soprattutto la testimonianza decisiva, la prova che incastra i quattro: quella di R. l’amica che era con lei nella villa e si vide arrivare S. in camera nuda, sconvolta, subito dopo, e che ricevette per prima il racconto dello stupro di gruppo.
Un racconto immediato, a botta calda, sincero. Sul piatto dell’accusa c’è anche dell’altro, ed anche questo peserà forse sulla decisione dei giudici. È il linguaggio cinico dei quattro, il disprezzo con cui parlano della loro vittima. Lo ricorda Giulia Bongiorno, avvocato di parte civile di S.: «È mio dovere - dice la Bongiorno citando i dialoghi degli imputati o - richiamare alcuni atti, Inizio dicendo che quella tr...
della mia assistita prima non lo era ma dopo la vodka lo è diventata. Giuridicamente basterebbero queste parole per definire tutto. Atti che fanno venire i brividi». E ancora: «Per i ragazzi non conta che lei non volesse avere nessun tipo di rapporti. La sua volontà vale zero». La Bongiorno va all’attacco anche del controinterrogatorio martellante cui S. è stata sottoposta dai difensori dei quattro nell’aula del processo, «un esame durato 35 ore con 1.675 domande, l’emozione l’ha travolta diciotto volte, Ma non si è mai contraddetta».
Sará anche vero, come dice il procuratore Capasso per giustificare la proposta di attenuanti generiche, che anche per i quattro giovanotti genovesi questa è stata una «storia drammatica», e che «sono stati coinvolti in una vicenda più grande di loro, per la quale hanno sofferto e stanno soffrendo». Ma il dramma e la sofferenza sono arrivati dopo, quando si sono trovati invischiati in un processo di durata interminabile. Quella notte, si divertivano come matti, con S. ridotta a una bambola, e R.
che dorme e diventa anche lei preda, fotografata con i genitali dei ragazzi in faccia: «Emerge dice l’avvocato di R. - un modo di fare, di scattare le foto e poi di commentarle sulle chat, un esercizio di potere sulla donna che stava dormendo». Esattamente: un esercizio di potere.