"Expo in Brasile, poi torno da Letizia"

Parla l’uomo-macchina della candidatura vittoriosa di Milano: "Arruolato da San Paolo ma con la Moratti ho in mente altri progetti"

"Expo in Brasile, poi torno da Letizia"

Chiusa una porta, si apre un portone. Viene voglia di crederci guardando Paolo Glisenti un anno dopo la burrascosa uscita dall’Expo Milano 2015. Il manager adesso è consulente di San Paolo, la metropoli brasiliana che punta all’Expo 2020. Martedì scorso a Parigi è stato avvistato nel palazzo del Bie: mentre Milano veniva proclamata ufficialmente sede dell’Expo 2015, lui presenziava ai lavori come delegato brasiliano. A suggerire il nome di Glisenti è stato il sindaco, Letizia Moratti.
Non ha più rapporti con l’Expo Milano 2015?
«Ho un rapporto positivo con il sindaco. Tranne l’amicizia personale, nessun rapporto con l’Expo 2015: sono un tipo abituato a chiudere davvero, quando chiude un capitolo».
La Moratti ha parlato di vostri progetti comuni. Lei che consulenza proporrebbe?
«Evidentemente il sindaco ha pensato qualcosa da fare insieme. Io credo che in una città come è Milano ci sia da fare in termini di attrazione, per acquisire i grandi eventi congressuali».
Propone di puntare sui grandi congressi?
«Puntare sullo sviluppo della capacità congressuale e sulla capacità di sostenerla nel tempo. È il brain power: attirare talenti, interessi, sviluppare il brand della città, cioè definirne l’identità. Milano e Roma sono le città che più lavorano in questo ambito. In un momento in cui è forte la tentazione di rinchiudersi e il localismo, le città sono motori della globalizzazione».
Che cosa porta da Milano a San Paolo?
«Evidentemente quel che è stato fatto a Milano è un patrimonio apprezzato, un know how ritenuto valido anche da Paesi competitivi come il Brasile, che ha già vinto i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016. È un segno che l’Italia sviluppa competenze esportabili e lo dico al di là della mia vicenda personale».
Prova amarezza per quel che è accaduto a Milano?
«Assolutamente no. Penso a quel che si è sviluppato dopo, anche grazie al grande lascito delle relazioni, internazionali. Sono reduce dalla presentazione della candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2010, con il primo dossier che è servito per vincere nella competizione con Venezia. Ho ripreso la squadra che lavorava con me per l’Expo 2015 e adesso posso rimettermi in gioco in un Paese come il Brasile, tra i più grandi del mondo».
Come si spiega la diffidenza verso i grandi eventi come l’Expo che attraversa la politica italiana?
«C’è una preoccupazione istintiva a mettersi in gioco con le regole della concorrenza mondiale. In secondo luogo può esservi timore che i grandi eventi portino via risorse da provvedimenti urgenti e socialmente utili, che però nasce da una scarsa conoscenza delle ricadute economiche, anche a breve tempo, di questi eventi. E poi c’è il fattore che mi preoccupa di più».
Qual è il fattore che la preoccupa di più?
«In Italia stiamo introiettando, in modo inconsapevole, una dimensione di serie B, una perniciosa convinzione che non possiamo permetterci di giocare a un livello alto. Questo è ciò che mi preoccupa di più».
Quali previsioni fa per Milano 2015?
«Milano si trova davanti a un grande problema strategico che è una sfida importante e anche una grande opportunità: dovrà dimostrare che un nuovo modello di Expo è possibile.

Con Shanghai si è chiusa l’era dell’Expo monumentale. Ci sono stati errori di partenza nel montaggio del motore, ma adesso siamo davanti a una sfida strategica molto importante. Se riusciamo ad affrontarla bene, sono molto ottimista sull’Expo Milano».

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