Cultura e Spettacoli

Il Führer, un bersaglio sempre mancato

Bottiglie esplosive, bombe a orologeria, gas letali nel bunker: il capo del nazismo scampò a molti attentati. In «Uccidere Hitler» Roger Moorhouse ne ripercorre la storia, dall’ascesa al potere al 1945

Adolf Hitler, come ricorderà la sua segretaria Traudl Junge, aveva i capelli «ritti sulla testa come le setole di un cinghiale». I calzoni neri gli penzolavano a strisce dalla cintura. Frau Junge fece fatica a non ridere quando lo vide emergere così da una nuvola di fumo e di polvere. Era il 20 luglio del 1944. La bomba che il colonnello Claus von Stauffenberg, cieco dall’occhio sinistro e monco della mano destra, aveva posto sotto il tavolo delle riunioni del Führer, non aveva compiuto la sua opera. Forse Stauffenberg, impedito dalle sue menomazioni, non era riuscito ad attivare tutte le cariche esplosive. Fatto sta che il capo del nazismo si salvò e poté, poche ore dopo, incontrare il suo alleato Mussolini. L’attentato contro Hitler, frutto di una congiura di alti ufficiali della Wehrmacht, era fallito. Il tentativo di sollevare l’esercito finì nel nulla. Gran parte dei congiurati furono torturati e uccisi. Persino il Feldmaresciallo Rommel fu costretto a suicidarsi. Von Stauffenberg finì al muro e morì gridando «Viva la sacra Germania».
«Che idioti» commentò Joseph Goebbels. «Se penso a come avrei gestito io una cosa del genere. Perché non hanno occupato la radio e diffuso le menzogne più assurde? Non mi hanno nemmeno staccato il telefono! Avere tanti assi in mano e buttare tutto al vento, che principianti!». Quello di Stauffenberg fu il più famoso ma non l’unico tra gli attentati a Hitler. Più persone, in diversi momenti e in svariati modi, cercarono di eliminare il leader del nazismo. Severi ufficiali dell’esercito ma anche pazzi solitari, tedeschi esasperati ma anche agenti inglesi o russi. I tentativi a volte fallirono per un soffio. La storia di tutti questi attentati è ora ricostruita dallo storico inglese Roger Moorhouse, in un libro documentato e ben scritto, che appare nella collana storica diretta da Sergio Romano: Uccidere Hitler (Corbaccio, 408 pagine, 22.60 euro). Sfogliando il saggio di Moorhouse, ci si rende conto di come la storia avrebbe più volte potuto prendere un altro corso. Stupisce come Hitler sia riuscito a passare indenne attraverso tante insidie, considerato anche che, soprattutto all’inizio, le misure di sicurezza intorno a lui erano quasi inesistenti. Paradossalmente, nota Moorhouse, i meno propensi a eliminare il Führer furono i comunisti, che pure nelle piazze sfidavano con baldanzoso coraggio i nazisti. Forse perché, sostiene l’autore, la dottrina dell’omicidio politico era estranea all’ideologia comunista, che nel nazismo vedeva l’ultimo rantolo della società capitalista, un’involuzione storica indipendente dalla volontà individuale e che dunque non si poteva fermare ammazzando un individuo. Eppure qualche militante di sinistra tentò comunque l’azione risolutiva: come quel Beppo Roemer che, nel 1933, si infiltrò indisturbato nella cancelleria del Reich e fu fermato solo all’ultimo momento per essere spedito a Dachau.
Sta di fatto, comunque, che le minacce dirette alla vita di Hitler vennero spesso da altri fronti. All’inizio si trattava spesso di attentatori solitari. Nel 1938, lo svizzero Maurice Bavaud, fervente cattolico con qualche tratto psicopatico, si appostò con la sua pistola a un raduno nazista ma non premette il grilletto perché Hitler era coperto da una folla immensa: vagò per giorni con la sua pistola in tasca finché la polizia lo prese. Fu ghigliottinato nel 1941. Nel 1939 il carpentiere Georg Elser, lavorando di notte con pazienza certosina, scavò un buco nel pilastro di una birreria dove Hitler doveva parlare e vi piazzò una bomba a orologeria. Vi furono tre morti e 67 feriti, ma l’attentato fallì perché Hitler anticipò l’orario del suo discorso. Papa Pio XII mandò un telegramma in cui si felicitava con il Führer per lo scampato pericolo e nella cattedrale di Monaco si intonò un Te Deum di ringraziamento. Elser fu giustiziato il 9 aprile 1945 con un colpo alla tempia. Moorhouse dà conto anche dei tentativi degli agenti inglesi e russi di uccidere Hitler durante la guerra.
Tutti rimasti più o meno alla stadio embrionale. E comunque, dopo Stalingrado, con le armate tedesche in rotta, i sovietici si sfilarono da congiure di questo tipo. Forse temendo, sostiene Moorhouse, che una Germania senza Hitler potesse raggiungere una pace separata con gli angloamericani.
Le minacce più serie vennero comunque dall’esercito che tradizionalmente mal sopportava l’autorità nazista. Già prima del complotto di Stauffenberg, molti alti ufficiali congiurarono contro il Führer. Nel 1943 il colonnello Henning von Tresckow consegnò un pacco a un attendente che stava per imbarcarsi su un aereo con Hitler. «Due bottiglie di brandy da portare a Berlino», disse. In realtà il pacco conteneva una bomba al plastico che doveva esplodere in volo. Ma il detonatore non funzionò e Tresckow dovette usare tutto il suo sangue freddo per recuperare il pacco senza destare sospetti. Può stupire, invece, l’assenza di complotti all’interno del partito, se si esclude un estremo e velleitario tentativo di Albert Speer che, al processo di Norimberga, sostenne di avere tentato di gettare gas letale nella ventola di areazione del bunker di Hitler.
Ma un altro bel libro appena uscito da Mondadori, Alla corte del Führer, del giornalista inglese Anthony Read, mostra dettagliatamente come i gerarchi nazisti, pur divisi da odii e rivalità insanabili, fossero quasi patologicamente fedeli al loro leader, da cui osarono distaccarsi solo quando tutto era perduto. In verità, bisogna tristemente ammettere che ciò che salvò Hitler fu il consenso che lo circondava. E che anche gli attentati contro di lui, con tutto il rispetto per il sacrificio di un von Stauffenberg, nascevano spesso in una dimensione ambigua e poco eroica. Come dimostra il caso del generale Hubert Lanz. Fermo nel proposito di uccidere il Führer, quando vedeva i suoi soldati mandati al massacro sul fronte russo.

E poi, qualche mese più tardi, volonteroso carnefice di Hitler, quando sterminò gli ufficiali italiani che non gli avevano ceduto le armi nell’isola di Cefalonia.

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