La Francia brucia. La Ragione brucia. Eppure, almeno 15 anni fa il governo francese aveva elaborato una strategia di integrazione - o meglio: assimilazione - molto sofisticata e ogni anno, un'apposita Commissione, presentava al premier un rapporto in cui si proponevano misure e si faceva il bilancio di quelle già prese. Politica dei ricongiungimenti dei nuclei familiari, spazi riservati ai musulmani nei cimiteri per evitare il ritorno alla terra natale che avrebbe mantenuto saldi i vincoli del passato, servizio militare. Intransigente sul velo islamico, per omaggio alla laicità dello Stato, la Francia concedeva con larghezza la cittadinanza, convinta che questo bastasse a trasformare in francesi i tanti immigrati.
Ma può un maghrebino considerare Molière e la cattedrale di Chartre come parti della propria cultura? Questa domanda nessuno se l'era posta. Era impensabile che i valori universali della Francia potessero essere respinti. Invece è accaduto. E non conta che le banlieues siano bene ordinate, fornite di tutti i servizi, collegate con il centro da una rete invidiabile di metro. A mano a mano, queste periferie si sono trasformate in ghetti dove si è sviluppata la ricerca di una identità, in parte favorita, è inutile nasconderlo, dal proselitismo religioso islamico innestato in un clima politico dove alla Francia non bastava né giocare la carta dell'europeismo né quella dell'antiamericanismo e dell'antiglobalizzazione.
Si dice che la Francia e la Gran Bretagna paghino il loro passato coloniale, i risentimenti che hanno lasciato in Africa, in Medio Oriente, in Asia. Alla Francia non sono bastati né una politica terzomondista né un filo-arabismo sempre più pronunciato dal 1967 in poi. Forse, in nome di questi, ha rinunziato a difendere in modo convinto proprio quei principi universali che l'hanno resa grande, appiattendosi su un relativismo che è di per sé potenzialmente conflittuale. Rinunziando a tenere alta la bandiera dell'Occidente, di cui fa parte e che essa stessa ha contribuito in modo rilevante a forgiare, la Francia ha finito per rinunziare anche alla propria bandiera, a quel nazionalismo fondato sui valori culturali che è perciò finito nelle mani del nazionalismo spicciolo di stampo razzista. La soluzione «legge e ordine», ovvero la pura e semplice repressione, appare la strada obbligata, ma non si sa dove possa portare. Perché la rivolta che divampa da dodici giorni è una rivolta contro la Ragione, cioè contro l'essenza stessa della francesità. Di sicuro i governi degli ultimi anni e le élite intellettuali hanno nascosto la testa sotto la sabbia e la rivolta è scoppiata, come nel maggio del '68, improvvisa e inaspettata. Solo che questa volta non riguarda la borghesia francese, ma punta diritta a rompere il contratto sociale e a distruggere la legittimità dello Stato-nazione. Non c'è dubbio che, prima o poi, l'ordine tornerà, ma si stenderà sopra uno spesso strato di diffidenza, di rancore, di ostilità.
Che cosa sia uno Stato o che cosa sia una Nazione, oggi, nell'epoca della globalizzazione, è impossibile dire. Ci vorrà un grosso sforzo culturale per trovare una risposta che sia efficace sul piano organizzativo, che non si fondi su un generico elogio della tolleranza. Alle prese con i parametri di Maastricht, i leader politici hanno trascurato la riflessione propriamente politica, l'organizzazione della comunità.
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