Nella prima metà dell'Ottocento l'Inghilterra decise di rimettere sul trono dell'Afghanistan un re spodestato, Sha suja, da trent'anni in esilio in India. Shuja era stato l'ultimo sovrano timuri del clan Sadozai che per tutto il XVIII secolo aveva governato un Paese ancora al crocevia tra l'Iran, l'Asia centrale, la Cina e l'Hindustan, prima che il clan Barakzai, guidato da Dost Mohammad, ne prendesse il posto.
Era successo che quest'ultimo aveva ospitato un ufficiale russo, latore, si diceva, di un'offerta di alleanza da parte dello zar e in quello che le diplomazie coloniali del tempo si divertivano a chiamare «il Grande Gioco» si considerava necessaria una contromossa atta a neutralizzare quell'eventualità. Nessuno, per la verità, sembrava accorgersi che, come recita il finale del Kim kiplinghiano, «il Grande Gioco è concluso quando sono morti tutti. Non prima». Né molto interesse veniva prestato a cosa sarebbe potuto succedere dopo. Come dirà profeticamente un locale signore della guerra, Mehrab khan di Qalat, all'inviato britannico Alexander Burnes: «Porterete un esercito nel nostro Paese. Ma come pensate di riportarlo fuori?»
L'invasione di un'armata britannica di 20mila uomini cominciò dunque avendo per base una minaccia del tutto vaga, quella di un singolo agente russo a Kabul, subito ingigantita, manipolata e trasformata da un gruppo ideologizzato e ambizioso di falchi anglo-indiani, nello spauracchio di una fantomatica invasione russa. Proseguì in un profluvio di pressappochismo, spocchia, malriposto senso di superiorità: generali troppo grassi, troppo vecchi, da troppi anni lontani da un campo di battaglia; politici e burocrati totalmente digiuni degli usi, dei costumi, dei rapporti di forza del Paese che si accingevano a conquistare; diplomatici e agenti segreti talmente presi dall'idea di fare rapidamente carriera e recitare comunque un ruolo da protagonista, da abbracciare un'aggressione e una re-intronizzazione fino al giorno prima considerate insensate. Terminò in un disastro: un jihad delle tribù afghane guidate dal sovrano spodestato; l'impossibilità del re-fantoccio messo al suo posto di esercitare la minima autorità, il suo abbandono da parte dell'improvvido alleato, il suo assassinio; la caotica ritirata, attraverso i gelidi passi dell'Hindu-Kush, dell'esercito invasore, tramutatasi alla fine in un massacro; l'umiliazione di quello che era allora l'impero più potente del mondo.
Tutto questo è raccontato da William Dalrymple nel magnifico "Il ritorno di un re" (Adelphi, 638 pagine, 34 euro), ma il valore e l'interesse del libro consiste non tanto nella rievocazione storica in sé, quanto nella duplice prospettiva che la sottende. Da un lato Dalrymple mette in evidenza i parallelismi, non aneddotici, ma sostanziali, con la successiva, disastrosa intromissione dell'Occidente in Afghanistan nel XX secolo: «Centosettant'anni dopo, le stesse rivalità tribali, le stesse battaglie negli stessi luoghi all'ombra di nuove bandiere, nuove ideologie e nuovi burattinai. Le stesse città erano presidiate da truppe straniere che parlavano la stessa lingua e subivano attacchi dalle stesse colline circostanti e dagli stessi alti passi. In entrambi i casi, gli invasori pensavano di venire, cambiare il regime e andarsene in un paio d'anni. In entrambi i casi invece non sono riusciti a evitare di restare invischiati in un conflitto assai più ampio».
Il secondo aspetto riguarda invece le fonti e getta una luce completamente diversa sul conflitto e le sue ragioni. Dalrymple ribalta l'orientalismo classico della letteratura storiografica di qualità, ovvero l'occhio e il gusto occidentale con cui quella guerra è stata raccontata, e dà spazio al ricco filone delle fonti afghane coeve. Da un libraio di Ju-yi Shir, il mercato dei libri usati nella città vecchia, scopre «diverse biblioteche private appartenenti alle famiglie nobiliari afghane emigrate negli anni Settanta e Ottanta» e fra esse «otto fonti persiane d'epoca sulla Prima guerra anglo-afghana, tutte scritte in Afghanistan durante o all'indomani della sconfitta degli inglesi e mai utilizzate prima, ma pubblicate in molti casi da stamperie persiane in India per il mercato interno nell'imminenza della Grande rivolta del 1857».
Come in un gioco di specchi, qui gli occidentali sono visti «dagli altri» e non secondo l'immagine spesso oleografica con cui hanno raccontato se stessi. Le truppe inglesi si distinguono per crudeltà e lussuria, infidi terroristi che maltrattano le donne; romantici avventurieri il già citato Alexander Burnes, vengono tratteggiati come truffatori, diabolici seduttori maestri di lusinghe e di intrighi, corruttori dei nobili di Kabul… Ma nuova è anche la lettura del «fronte interno»: se nella memorialistica britannica i capi della resistenza afghana sono un fronte indifferenziato di traditori barbuti e più o meno fanatici, le nuove fonti danno vita a esseri umani dotati, come scrive Dalrymple, «di una loro sfera emotiva, di opinioni, di motivazioni personali» e consentono di capire come mai molti di essi «scelsero di rischiare la vita e imbracciare le armi contro le forze a prima vista invincibili della Compagnia delle Indie».
Ironia della storia, quella guerra che avrebbe dovuto perpetuare il regno di Kabul come ultimo superstite dell'Impero durrani,
situato ai margini di una regione geografica chiamata Khorasan, sanzionò invece «una volta per tutte l'idea di una nazione chiamata Afghanistan, definì i confini del moderno Stato Afghano, cambiò per sempre il volto del Paese».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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