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Ma fare gli schizzinosi non ci porta la luce nelle case

«Un’azienda non fa politica: si preoccupa del suo sviluppo; il nostro dovere è di prendere il denaro dove c'è». Di Gianni Agnelli si può dire di tutto. Ma quanto a pragmatismo negli affari nessuno lo batteva. Con questa frase tagliò corto dopo il provvidenziale ingresso dell’agenzia libica per gli investimenti nel capitale della Fiat nel 1976, allora in seria difficoltà nel reperire fondi. La politica però quando esce dalla porta rientra dalla finestra e, dieci anni dopo, a seguito del bombardamento “punitivo” ordinato dal presidente americano Reagan sulle installazioni militari di Tripoli, il 15% della Fiat nelle mani di Gheddafi dovette essere venduto in fretta e furia. Nel frattempo gli uomini della Libia nel consiglio di amministrazione della società di Torino si erano sempre comportati, secondo Agnelli, da «perfetti banchieri svizzeri». Intanto, da allora, al governo degli Usa si sono alternati, prima di Obama, Clinton e due generazioni di Bush. Gheddafi è sempre lì.
Prima di considerare “folcloristico” il leader libico e di essere schizzinosi quando si accenna ad accordi o scambi commerciali, conviene riflettere sul fatto che, da quando il Colonnello prese il potere nel 1969, in Italia si sono succeduti la bellezza di 37 governi. Facile ironizzare sulle uniformi da carnevale, ma è probabile che nemmeno noi siamo sembrati troppo seri ai suoi occhi, mandando ogni pochi mesi un premier diverso a stringergli la mano. La tela degli affari però è più stabile delle bizze della politica e i contatti fra l’Italia e la Libia non si sono mai interrotti. Nel pieno della crisi finanziaria, l’anno scorso, la nostra banca più esposta al vento della crisi, vale a dire l’Unicredit, trasse notevole giovamento dal denaro di Tripoli, che ne comprò una quota significativa, contribuendo, forse in maniera decisiva, al superamento della fase critica per la banca di piazzale Cordusio. Gli Usa del resto non si sono fatti particolari problemi nel cedere le quote delle loro banche traballanti ai fondi sovrani arabi ed orientali. Anche le nostre imprese trovano terreno fertile nell’altra sponda del Mediterraneo, e non solo per il petrolio.
Purtroppo le relazioni internazionali sono cose da stomaci forti. Il governo italiano ha dimostrato che trattando con la Libia è stato possibile mettere un freno ai flussi di clandestini: dall’inizio degli accordi di maggio gli sbarchi sono passati dagli oltre 10mila, registrati nello stesso periodo dello scorso anno, a poco più di mille. I migranti non dovrebbero essere merce di scambio ma purtroppo le cose vanno diversamente, dappertutto. Anche la Spagna è riuscita a mettere un freno all’assalto alle Canarie nel 2006 solo accordandosi con il Marocco, e anche in quella sede si è parlato di tutto, di persone, certo, ma anche di affari.
A Gheddafi non dobbiamo più nulla, la ricerca del passato va bene solo come esercizio di propaganda. Il lontano 1911 della colonizzazione sta per girare il secolo. Ci sono numerosissimi e fondati motivi perché la persona non ci piaccia, tuttavia nella fredda ottica degli affari bisogna pensare molto bene prima di ostracizzare un potenziale partner che possa portare benefici economici all’Italia. Anche se non viaggia in tenda, il presidente del Kazakistan, Nazarbayev, non è più democratico di Gheddafi: ciò non impedisce all’Eni di aver puntato gran parte delle proprie possibilità di sviluppo proprio sui giacimenti del mar Caspio. Anche sulla democraticità della Cina ci sarebbe da discutere, eppure tutti sono in fila per farci affari. Il gasdotto che passa dall’Ucraina magari è più chic, ma ogni tanto si chiude e rischiamo di rimanere al freddo.

Attaccare una spina anche alla Libia potrebbe non essere un delitto.

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