Fassino ci ripensa: Bush? Vuole la democrazia

Il vicepremier: «Non sono affatto pentito delle mie dichiarazioni sull’Iran, il dialogo va bene ma cerchiamo di capirci...»

Laura Cesaretti

da Roma

La guerra è brutta, la pace è meglio: e almeno su questo punto il centrosinistra l’accordo è riuscito a trovarlo, tant’è che l’ha scritto nella sua «carta dei valori». Ma Piero Fassino non pare accontentarsi di questa lapalissiana acquisizione che tiene (parzialmente) tranquilla la coalizione, e prova a spingersi più avanti, con un’autocritica da pacifista in crisi: «Alle manifestazioni contro la guerra in Irak ho partecipato, ma ogni volta con disagio etico prima ancora che politico: qual è la proposta alternativa all’uso delle armi? Ecco, quella proposta alternativa noi non abbiamo avuto la forza di elaborarla». Perchè quella guerra, cui il leader ds continua a professarsi contrario, un risultato lo ha portato: ha riconquistato un paese alla democrazia, per quanto fragile e contraddittoria. E «noi non possiamo rinunciare a valori universali come la democrazia, neppure nel mondo islamico», per quanto sbagliato sia pensare di «esportarla con le armi». Ma, appunto, qual è l’alternativa? «Continuo a vedere una differenza fondamentale tra chi ha appoggiato le dittature in Sudamerica, come Kissinger, e chi come Bush invoca democrazia e diritti».
Il leader della Quercia non è nuovo a queste accelerazioni progressive sul terreno minato per l’Unione della politica estera, è di pochi giorni fa il suo messaggio di appeasement agli amerikani di Bush sul ritiro «concordato» dall’Irak. Ieri l’occasione era particolare, il convegno su «La sinistra e Israele», presente Fausto Bertinotti, dove si picconava un altro tabù, quello dell’«antiebraismo» di sinistra, un altro chiodo fisso fassiniano. In Medio Oriente «non sono in conflitto un torto e una ragione, ma due ragioni - dice - quella di Israele a vivere sicuro e quella palestinese di veder riconosciuto il suo diritto a una patria». Per gran parte della sinistra «c'è invece una ragione, quella palestinese, e un torto, quello israeliano». Bertinotti non è d’accordo, punta il dito contro il «vizio d’origine» d’Israele, quello di aver «creato una asimmetria per cui a un popolo si è dato uno Stato e un altro ne è stato privato».
E mentre Fassino e Bertinotti, sia pur dialoganti, restavano distanti, a pochi chilometri di distanza continuavano a brillare le mine delle contraddizioni irrisolte dell’Unione. Il Pdci di Diliberto abbandonava con gran clamore il «tavolo programmatico» sulla politica estera. Oggetto del contendere, il ritiro dall’Irak: «Ds e Prc rifiutano di scrivere che deve essere immediato», denunciano. E diffondo il testo programmatico incriminato: «Se vinceremo le elezioni immediatamente proporremo al Parlamento il rientro dei soldati, definendone, anche in consultazione con le autorità irachene che saranno al governo, le modalità, affinchè le condizioni di sicurezza siano garantite». Per i cossuttiani va specificato che quelle «condizioni di sicurezza» devono riguardare «i nostri soldati» e non altri: gli iracheni se la vedessero da soli, e tanti auguri. «Stanno solo cercando affannosamente un po’ di visibilità», contrattaccano da Rifondazione. E intanto i Verdi depositano la mozione pro-ritiro immediato che l’Unione non vuol votare. Sullo sfondo, nel frattempo, si affaccia l’inquietante fantasma del «pareggio»: studi elettorali di Ds e Margherita dicono che, in caso di vittoria, l’Unione rischia di avere al Senato un margine di quattro-cinque eletti. E i partiti minori, che al Senato non raggiungono il quorum, sono sul piede di guerra: «Senza una scelta politica della coalizione, il primo che rischia di non avere la maggioranza è Prodi.

Al Senato ci vogliono liste dell’Unione, altrimenti niente accordo sul programma», minaccia il verde Cento. Parisi è d’accordo: si facciano «liste unitarie» nelle regioni in cui è necessario. Ds e Margherita rispondono picche: «L’accordo non si tocca, noi al Senato ci vogliamo contare da soli».

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