Fini a Mirabello ha rinverdito i fasti della vecchia Dc

Caro Granzotto, mi piacerebbe sentire anche la sua voce riguardo l’intervento di Gianfranco Fini a Mirabello. Io ne sono rimasto disgustato. Fini è un traditore a capo di una banda di traditori. Ha tradito una causa, ha tradito il suo elettorato o comunque una buona parte, quello che non tradisce, ha tradito il suo impegno di cofondatore del Popolo della Libertà, ha tradito il suo ruolo istituzionale che non comporta l’impegno politico/partitico in prima persona. In ultima analisi ha tradito me, che ero suo ammiratore. Ripeto: sentirlo vantarsi del tradimento e prospettandone le conseguenze, Gianfranco Fini mi ha ferito profondamente, disgustandomi.
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La capisco, caro Lombardi, però, non s’arrabbi, ma a me lo show di Mirabello ha deliziato. La prolissa allocuzione di Fini mi ha fatto tornar giovane perché richiamava alla memoria i congressi della Democrazia cristiana, con quegli interventi interminabili, quel linguaggio ambiguo e inzeppato di stilemi, frasi fatte, luoghi comuni, riferimenti d’obbligo (Sturzo per gli «amici» della diccì, Pound per chi fino a ieri si proclamava camerata), tatticismi eccetera appartenenti al canone dialettico che era proprio dei democristiani. Se escludiamo i personali riferimenti agli inscrutabili e intoccabili affari di famiglia, le parole di Gianfranco Fini sapevano di vecchio, emanavano un profumo di cipria da primissima Repubblica, cosa davvero sorprendente per uno che vuole «fare» il futuro. A meno che alla fin della fiera questo benedetto futuro non si riduca proprio alla costituzione d’un partitino da 4 per cento e rotti col quale poi mettersi sul mercato per vendersi al miglior offerente di posti e posticini di potere. Un incasinamento - nel senso di procedere alla maniera di Casini - un metter su botteguccia in proprio e conquistarsi così il diritto di ribalta.
Un tuffo nel passato, questo ha rappresentato per me il circo di Mirabello, caro Lombardi. Un passato che occhieggiava anche nell’aspetto del mattatore, un Fini in versione ragioniere il dì di festa che sfoggiava una abbronzatura come non se ne vedevano dai tempi di Poveri ma belli. Quelle abbronzature di certi scanzonati borgatari che scendevano, la sera della domenica, dal trenino che da Ostia porta a Roma: compatta, tendente al mattone, da coatto del sole e della sabbia. È una mia debolezza, lo so, ma da quando Gianfranco Fini ha preso ad acchittarsi, ad azzimarsi vestendosi da gagà con leziosa ricercatezza, non mi perdo una sua comparsata. E sempre dicendomi che non può aver fatto e fare tutto da solo, ripetendomi: cerchez la femme anche perché, si sa, dietro un grand’uomo, gratta gratta c’è sempre una grande donna. La cravattona tuttifrutti che inalberava a Mirabello, a esempio: la si è vista solo nei film americani, al collo d’un venditore di auto usate in qualche sobborgo del Wisconsin. E i gemelli? La terza carica dello Stato s’è convinto o è stato convinto dalla femme che i gemelli «fanno fino» e dunque non solo li adotta, ma li sbandiera avendo l’accortezza di indossare giacche con le maniche 20 centimetri più corte o camicie con maniche 20 centimetri più lunghe. Quelli ostentati a Mirabello erano spettacolari. Un tricolore formato da schegge di smeraldi, brillanti e rubini (magari era bigiotteria, ma forse il risultato cambia?). Il trionfo del kitsch, di un teatrale pessimo e al tempo stesso ridicolo gusto. Lei mi dirà, caro Lombardi, cosa centri tutto ciò nel giudizio sull’uomo Fini.

C’entra, c’entra, perché chi crede non solo che l’abito faccia il monaco, ma che il saio debba essere un Dolce&Gabbana taroccato con un tocco di café chantant, dove vuole che vada (oltre che al ballo della Croce Rossa a Montecarlo, intendo, ché tanto è di casa)?

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