FINKIELKRAUT Se l’Europa vuole la pace deve ripensare la guerra

Il filosofo francese: non bisogna trasformare il nemico nel «male assoluto» altrimenti ogni attacco per eliminarlo diventa legittimo

FINKIELKRAUT Se l’Europa vuole  la pace deve ripensare la guerra

Si può ancora pensare la guerra? Prima di rispondere a questa domanda, è necessario spiegare ciò che oggi la guerra non è più per noi europei. La guerra non è più la continuazione della politica e della diplomazia con altri mezzi, come spiegava il generale von Clausewitz. L’Europa, erede della guerra totale, «età degli estremi» secondo Eric Hobsbawm, ha lasciato alle spalle il XX secolo e l’Unione europea è stata edificata per liberare le nazioni del continente dal loro passato bellicoso. Ma molto velocemente, la conflittualità ha bussato di nuovo alle porte dell’Europa, richiamandoci tutti all’ordine. Oggi siamo dunque costretti a pensare la guerra perché ci troviamo nuovamente nel suo orizzonte. La storia abbonda di avvertimenti recenti e ci invita a interrogarci. \ Un nuovo nemico, estremamente potente e impenetrabile, senza indirizzo, è improvvisamente apparso: il terrorismo islamico che ha colpito gli Stati Uniti, la Spagna, la Gran Bretagna e che potrebbe nuovamente colpire l’Europa. Questo inedito antagonista non assomiglia assolutamente a quei nemici riconoscibili e identificabili contro i quali lottavano gli Stati sovrani del passato. Potremmo formulare l’ipotesi che le guerre di oggi, la guerra americana in Irak e in Afghanistan per esempio, nascondano l’obbiettivo un po’ illusorio di ridare un’identità geografica al nemico.
\ La guerra torna a noi sotto due diverse spoglie. In primis, un interrogativo ossessivo: quello dell’intervento. Ci rendiamo conto che non possiamo vivere come se fossimo soli al mondo. Esiste un altrove dove gli scontri continuano a essere risolti con la forza. E l’Europa, nata da Auschwitz e da Buchenwald, non può più tollerare che uno Stato pratichi impunemente lo sterminio dei suoi oppositori e delle sue minoranze invocando il principio di sovranità. L’intervento è una realtà che si delinea oggi con un’incisività nuova, come una possibilità, un dilemma, un dovere, un rimorso quando non è realizzato. Abbiamo l’esempio dell’Irak e dell’ex Jugoslavia. Guerre necessarie? Guerre inevitabili? Bisognava o no intervenire? Con quali pretesti e condizioni? Non tutti gli interventi possono vantare una giustificazione condivisa da tutti ma l’Europa di Norimberga non può più commettere l’errore del 1933. «Egregi Signori, noi siamo padroni a casa nostra. Siamo uno Stato sovrano e facciamo ciò che vogliamo», aveva dichiarato ai rappresentanti della Società delle Nazioni l’allora ministro della Propaganda tedesco, Goebbels, per giustificare le persecuzioni antisemite orchestrate dal regime nazista. Questa invettiva premonitoria non ha ucciso il concetto di sovranità ma l’ha destabilizzato per sempre. Oggi uno Stato «canaglia» deve rendere conto di quello che fa agli altri Stati \. Dobbiamo inoltre assicurarci che l’intervento detto «umanitario» non diventi il pretesto di guerre politiche che non osano dire il proprio nome.
La guerra si ripresenta inoltre a noi come minaccia. L’Europa, dopo aver sconfitto i totalitarismi del XX secolo, si è illusa pensando che, non avendo più nemici dichiarati, non ci fossero più avversari ai quali fare la guerra. Errore pericoloso, sottolineato qualche anno fa dall’intellettuale croato Mirko Grmek: «Per fare la pace bisogna essere in due, per fare la guerra è necessario uno solo». Anche se decidiamo di non avere più nemici, possiamo diventare il nemico di qualcuno. Lo sviluppo del terrorismo internazionale ci costringe a non ignorare ancora questa nuova realtà.
Vorrei evocare il politologo americano Samuel Huntington e il suo Scontro di civiltà che ha suscitato polemiche così accese. Questa teoria è stata spesso respinta con disprezzo e il suo ideatore accusato di fomentare l’odio immaginando un tale scenario. È necessario tuttavia ristabilire la verità: nel suo libro Huntington predica l’astensionismo e perfino l’isolazionismo. Non si tratta dunque di un saggio che invoca lo scontro di civiltà, non è l’armatura dottrinale delle crociate del futuro. È un libro nel quale si afferma che l’era delle guerre ideologiche si è conclusa ma che una nuova tipologia di conflitti si delinea oggi, conflitti molto più insidiosi perché non si basano più su delle ideologie avverse - comunismo e fascismo sono stati sconfitti - ma sulle culture, sulle civiltà.
Il liberalismo, il capitalismo, indiscussi vincitori del XXI secolo, hanno creduto di poter sintonizzare tutte le società, tutte le nazioni sulla stessa frequenza, quella della modernizzazione. Ciò nonostante, come ricorda Huntington, una modernizzazione senza occidentalizzazione è oggi possibile. Se l’Occidente continua a rifiutare di esserne cosciente, sarà trascinato verso terribili scenari futuri. E, proprio per questo motivo, il politologo sconsiglia l’ingerenza: l’intervento, il confronto armato rappresentano, ai suoi occhi, il paradigma di partenza di un conflitto senza fine. Eppure, nessuno in Occidente, neanche gli Stati Uniti, evoca oggi l’esistenza di uno scontro di civiltà. Il presidente George W. Bush utilizza un linguaggio indiscutibilmente religioso per giustificare la guerra in Irak ma non dobbiamo dimenticare che le stesse parole sono state usate dal presidente Wilson per legittimare l’intervento americano in Europa, nel 1914-18. È giusto denunciare le menzogne della guerra americana in Irak ma non dobbiamo cedere alla tentazione di farlo servendoci di altre menzogne. È infatti una menzogna mettere sullo stesso piano la crociata del presidente Bush con la Jihad intrapresa dai terroristi islamici. Gli Stati Uniti non affermano che gli iracheni sono, per definizione, inadatti alla democrazia perché sono musulmani. È vero il contrario: gli americani vogliono esportare la democrazia in Irak. Gli islamici invece ci considerano una civiltà da abbattere. Non dobbiamo dimenticare che questa teoria dello «scontro», prima ancora di essere stata elaborata da Huntington, è stata usata da Bin Laden. Ci resta solo da scoprire se questo paradigma è realmente valido e se la religione, le civiltà stanno occupando il posto che fino a poco tempo fa era quello dell’ideologia \.
Il maggior pericolo, in questa Europa sempre più incapace di ammettere la realtà della guerra, è una nuova criminalizzazione del nemico. È attraverso il concetto di justus hostis che siamo usciti dalla visione teologica del confronto armato e ci siamo salvati dalla minaccia che il concetto di guerra giusta implica. L’Europa del XVII secolo è stata traumatizzata dalle guerre di religione, delle vere e proprie guerre di annientamento. Siamo passati dal tema della justa causa a quello del justus hostis facendo in questo modo una straordinaria scoperta: il nemico non è un criminale. Il nemico non è il male assoluto. Oggi assistiamo invece all’affermarsi della tentazione inquietante e diffusa di criminalizzare l’avversario, in particolare nel caso delle guerre tra nazioni, come il conflitto israelo-palestinese. \ Ebbene, se all’opposizione di due nemici si sostituisce il confronto tra un potente e l’Altro, allora si richiama in vita l’insidioso tema del nemico assoluto. E colui che non vuole l’Altro, che lo rifiuta in quanto «non-simile», è qualcuno che vuole impadronirsi della definizione di umanità. Diventa dunque il nemico del genere umano e, per questo motivo, ogni attacco per eliminarlo è considerato legittimo. Un esempio molto attuale: il muro di sicurezza che separa israeliani e palestinesi. Questa barriera può essere criticata nell’ambito di una visione ancora polemologica della guerra: ci sono due nemici, uno dei due vuole proteggersi dalla violenza dell’altro e, al tempo stesso, cerca di approfittarne per annettersi terre arabe. Ma se questa separazione viene definita un nuovo «muro dell’apartheid», le critiche sono esasperate, estremizzate. L’artefice del muro è automaticamente accusato di razzismo e diventa il nemico assoluto da distruggere.
Queste riflessioni ci aiutano a capire che il rifiuto di pensare la guerra e di ammettere l’esistenza di un nemico contribuisce, in modo paradossale, a far riemergere la figura terribile e pericolosa del nemico assoluto, colui contro il quale tutto è permesso perché ha cessato di far parte dell’umanità comune.

Gli insegnamenti che dovremmo trarre da questi due conflitti, così recenti, in Medio Oriente e in Europa, dovrebbero incitarci a non perdere di vista completamente quella che è stata la saggezza della guerra, espressa in parte nella seguente formula, Alius est hostis, alius est rebellis («Una cosa è il nemico, una cosa è il ribelle»), saggezza che siamo tentati di dimenticare in nome delle lezioni impartite dalla storia e in nome della guerra razzista intrapresa dai nazisti. Una amnesia che potrebbe condurci, forse non al peggio, ma in ogni caso a sostenere il peggio.

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