Finse di morire per fuggire i suoi eccessi

Jim Morrison, forse il rocker più trasgressivo, morì a Parigi, a 27 anni, nel 1971, nel bagno di casa. L’Adone che un tempo faceva impazzire le fan era ingrassato, barbuto e devastato dall’eroina e dall’alcool. Alcuni dissero che era una fine inevitabile, altri sostengono tuttora che abbia messo in scena la sua morte per sfuggire alla prigione del suo passato da ribelle senza causa. Quando morì con lui c’era la fidanzata Pamela Courson; arrivò immediatamente a Parigi il suo amico fedele, e tastierista dei Doors, che ancor oggi dice: «Era morto da poche ore ma l’hanno portato via subito, nessuno, neppure io, ha visto il suo corpo», che ora riposa nel cimitero Pere Lachaise, meta incessante di fan devoti. La teoria della morte simulata fu alimentata anche dalla biografia «No One Gets Out Alive» (Nessuno uscirà vivo di qui) del noto critico Jerry Hopkins. Peccato che Hopkins non abbia potuto pubblicare il manoscritto originale, che prevedeva due edizioni con due finali diversi. Il primo raccontava la morte di Jim; il secondo la sua scomparsa per ricominciare una nuova vita.

Hopkins scrisse alle case editrici: «Ci sono due epiloghi per questo libro; la tiratura dovrà essere divisa equamente, metà con l’epiolgo 1, metà con il 2, quindi dovranno essere mescolate e distribuite a caso, senza mai fare qualsiasi menzione dei due diversi finali».

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