FRANZEN Il disagio di dover essere se stessi

Manca una riflessione sulla scrittura come lavoro quotidiano. In compenso troviamo una difesa dei cartoon di Charles Schulz e la passione per la letteratura tedesca

Jonathan Franzen, l’acclamato autore delle Correzioni, pubblica un’autobiografia, The Discomfort Zone (ed. Farrar, Straus and Giroux). Sono passati cinque anni dall’uscita di quel fortunatissimo romanzo (e quattro da quella della raccolta di saggi How to Be Alone, bellissima) e Franzen, nel corso di questo lustro, è diventato una vera e propria star. La gente fa la coda per andarlo a sentire, i giornali lo citano in continuazione, gli invidiosi non la smettono di sparlare di lui. Gli ammiratori lo considerano un genio della scrittura, i detrattori un arrogante, un retrogrado, un nemico della sperimentazione, cioè dello spirito americano più autentico.
Ma chi veramente crede di essere Jonathan Franzen? La lettura di queste duecento pagine aiuta solo in parte a rispondere a una simile domanda. Il libro è diviso in capitoli tematici, che parlano di fumetti, gite estive, lingue straniere, ambientalismo, uccelli e matrimoni falliti. Apre e chiude la narrazione la morte della madre. Commoventi, anche se tutt’altro che lacrimevoli, le pagine d’apertura in cui si racconta la vendita della casa di lei - una casa che nessuno si decide a comprare.
Il rapporto con i genitori costruisce e domina l’immagine che Franzen tenta di darci di sé. Franzen li detestava. Ne parla immancabilmente con aria di superiorità. Degli abbracci della madre aveva orrore. La considerava, fin da piccolo, sciocca, patetica, gretta (è chiaramente il modello della Enid delle Correzioni). Del padre non aveva un’opinione migliore. Lui non sapeva scherzare, né divertirsi, e rovinava il divertimento degli altri. A Disneyland, dove si impose di portare il giovane Jonathan per un assurdo senso del dovere (ci aveva già portato gli altri due figli), non sorrise una volta. Però, serviva a Jonathan per difendersi dall’invadenza della madre. Senza saperlo o volerlo, era un suo alleato (il ritratto del padre va completato con lo stupendo saggio che apre How to Be Alone, sul suo Alzheimer).
Per il resto, Jonathan era solo, «socialmente morto». Gli amici non gli mancavano, ma pare che non avessero rapporti diretti con la sua intimità. Le ragazze lo evitavano. Scoprì il sesso tardi, negli anni del college (la prima volta che si masturbò aveva diciotto anni compiuti). Il piacere più grande, durante l’adolescenza, glielo dava la lettura dei fumetti (i giornali pornografici lo lasciavano freddo). All’opera e alla personalità di Charles Schulz è dedicato un intero capitolo, il più bello forse del libro. È evidente che il Franzen autobiografo ha trovato nell’inventore di Charlie Brown un alter ego. Anche lui considera la sua famiglia alla stregua di un cartoon. Diventare un cartoon è, per lui, un obiettivo. Perché la gente deve parlare male dei fumetti? Il fumetto è un modo di percepire la verità; di spogliare le nostre percezioni di tutto l’inessenziale per arrivare al nocciolo.
Di sé Franzen, alla fine, racconta poco. Di sé non ha una vera idea. Si piace, questo è chiaro. O meglio: ha imparato a piacersi. Però, non ci dice come o perché. L’introspezione non fa per lui. E dunque, in quest’autobiografia, che alla fine un’autobiografia propriamente non è, bensì una raccolta di ricordi e di divagazioni, manca un piano narrativo, manca uno sviluppo. I temi si succedono in un ordine che solo esteriormente segue la cronologia. Si va dall’infanzia al matrimonio, ma per salti, per frammenti. Di una narrazione completa e drammatica si sente la mancanza, per quanto ammirevole sia la capacità di saltare da una parte all’altra, e non solo perché l’autore non ha ancora compiuto i cinquant’anni. Franzen di scrivere una storia autobiografica alla maniera tradizionale, dalla nascita all’oggi, non è capace.
Ma di una cosa soprattutto il lettore nota l’assenza: di una riflessione approfondita sulla scrittura. Questo libro parla dell’autore eppure non troviamo nessun discorso sul suo mestiere. Il che è tanto più notevole per uno scrittore sapiente e consapevole come Franzen. Scopriamo solo che si nutrì di lingua e letteratura tedesca. Chi l’avrebbe detto? I suoi libri preferiti erano i Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke e La montagna incantata di Thomas Mann. Il primo gli piaceva come romanzo di formazione, il secondo poneva una domanda che allo stesso Franzen è sempre stata a cuore: com’è che un giovane si allontana tanto in fretta dai valori e dalle aspettative del suo milieu piccolo borghese? Ancora nella formazione siamo. Complicata la comprensione di Kafka. Il K. del Processo, alla fine, gli appare il contrario della vittima che tutti siamo portati a credere: uno che, poiché non sa fare i conti con le proprie colpe, è costretto a farli dalla società in cui vive.
The Discomfort Zone è un libro che tace più che rivelare; che nulla aggiunge all’immagine che dell’autore ci eravamo fatta con la lettura degli altri suoi libri. E lui lo sa. Franzen non aveva nessuna voglia o intenzione di confessarsi. Perché ha scritto un libro del genere, allora? Per normalizzarsi. Intendeva sia uscire dal presente - quello chiacchierato del successo - sia guardare il passato con tranquillità, senza più vergogna, benché senza sentimentalismo (certo, verso la fine, ci dice che imparò ad amare la madre dopo che lei si fu ammalata. Eppure non credo che si possa immaginare narrazione più priva d’amore, più ostinatamente fedele al pensiero dello sconforto, come annuncia il titolo.)
Di sicuro, questo non è il libro della star che conoscevamo.

Alle Correzioni non si fa il minimo accenno, né ai precedenti romanzi, come se scrivere, che è l’occupazione principale di Franzen, non fosse affatto una preoccupazione. E così sarà, se così lui vuole che sia. Il libro termina con un lungo e dettagliato capitolo sul bird-watching.
Ecco che cosa importa a Franzen più di qualunque rivelazione. Stare a vedere.

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