Il G20 continua a litigare sul nodo dei cambi: intesa sempre più lontana

Vertice di Seul: Usa, Cina e Germania si rimpallano le responsabilità. Il surplus alle stelle di Pechino complica il quadro. Berlusconi: "La speculazione sui mercati delle materie prime va fermata"

Il G20 continua a litigare  
sul nodo dei cambi:  
intesa sempre più lontana

«Intendiamo rafforzare la flessibilità dei tassi di cambio per riflettere i fondamentali economici», recita una bozza del comunicato finale del summit del G20 di Seul. Purtroppo, solo di bozza trattasi, null’altro che una dichiarazione d’intenti palesemente stridente con la cacofonia di voci che ha animato la vigilia di un vertice reso più complicato del cubo di Rubik dalle distanze siderali tra i protagonisti sui nodi valutari e commerciali. Nel rimbalzare di accuse, con Usa, Cina e Germania nel ruolo di protagonisti, la presidenza sudcoreana è così intervenuta subito per mettere in chiaro che nel documento provvisorio «tutto è stato messo tra parentesi» perché «ogni Paese è rimasto fermo sulle proprie decisioni di partenza e i toni si sono accesi».

Precisazione tanto doverosa quanto sintomatica del clima di tensione che si respira in una capitale asiatica blindatissima. Mentre dal premier italiano, Silvio Berlusconi, è giunta la sollecitazione al G20 ad adottare «azioni immediate e incisive» contro la speculazione finanziaria, «in particolare nei mercati delle materie prime», appare in tutta evidenza il paradosso Stati Uniti-Cina. Entrambi i Paesi dicono le stesse cose: «Ciascuno si assuma le proprie responsabilità», è stata sia l’esortazione di Obama, sia del presidente cinese, Hu Jiintao. Ma il richiamo alla responsabilità viene rivolto solo per mettere in scacco gli avversari.

Il rendez-vous sud coreano rischia dunque di trasformarsi in un’autentica babele, tale da precludere ogni possibilità di accordo, forse perfino una soluzione di compromesso che verrebbe comunque vista come debole dai mercati. Il reciproco scambio di accuse nasconde le vulnerabilità di ciascuno. Gli Stati Uniti sono finiti sul banco degli imputati dopo il piano di stimolo da 600 miliardi di dollari deciso la scorsa settimana dalla Federal Reserve, giudicato soprattutto da Germania e Cina come uno strumento teso a indebolire il dollaro. Dunque, un elemento di ulteriore instabilità nei rapporti di cambio. Lo yuan, per esempio, continua a rafforzarsi: ieri ha toccato i massimi sul biglietto verde dal 1993. «Nessuno ha interesse alla formazione di una nuova bolla speculativa», ha spiegato ieri il cancelliere tedesco Angela Merkel a chi le chiedeva un commento sulle mosse della Fed. Ma anche Berlino è costretta a star sulla difensiva: nei primi nove mesi il suo surplus commerciale ha sfiorato i 100 miliardi di euro. Uno squilibrio che Obama ritiene «insostenibile». In risposta, la Merkel ha detto chiaro e tondo che la Germania non accetterà l’idea Usa di stabilire tetti massimi sugli avanzi creati dall’export. È una posizione condivisa anche dal Dragone cinese, il cui surplus (27 miliardi di dollari in ottobre, 200 miliardi a fine 2010 in base a stime di Ubs) è considerato dagli altri competitor una bomba a orologeria per il commercio mondiale.

Se un mese fa l’ipotesi di una sorta di guerra globale sui cambi sembrava esser stata scongiurata al vertice preparatorio del G20, ora l’asse della concordia si è pericolosamente inclinato. In un momento, tra l’altro, in cui il G20 è chiamato anche a ratificare Basilea 3, la cruciale riforma globale del sistema creditizio.

E a proposito di banche, ieri il Financial Times riportava la notizia secondo cui il G20 starebbe per pubblicare un elenco di venti istituti troppo grandi per fallire («too big to fail»). «Non c’è alcuna lista di banche a rischio sistemico», hanno replicato fonti del Financial stability board (Fsb), l’organismo presieduto dal governatore di Bankitalia, Mario Draghi.

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