Garcia racconta la sua Cuba ma Hollywood lo contesta

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Silvia Kramar

da New York

Dopo Mel Gibson adesso Hollywood ha trovato un nuovo «nemico»: il cubano Andy Garcia. Se Gibson aveva messo all’angolo il conformismo del cinema Usa con La Passione di Cristo, Garcia lo fa ora raccontando una storia che contesta i cliché della Hollywood liberal. In The Lost City, il film con cui ha esordito alla regia, l’attore che vi appare anche come protagonista, è riuscito finalmente a svelare i retroscena della rivoluzione cubana. Per lui è il coronamento di una lunga attesa.
Andy Garcia aveva cinque anni quando la sua famiglia fuggì da Cuba e chiese asilo politico a Miami. Ma l’attore non si era dimenticato della vita su un’isola che nel 1958 aveva entrate pro capite più alte di quelle dell’Austria e del Giappone. Una Cuba dove lo stipendio medio dei lavoratori era all’ottavo posto nella graduatoria mondiale e dove si era stabilito un massimo di otto ore lavorative giornaliere cinque anni prima del New Deal del presidente Franklyn Delano Roosevelt.
Con l’arrivo di Fidel Castro quella Cuba era sparita ma l’attore non l’aveva dimenticata. Mentre la sua famiglia si costruiva un impero nel settore dei profumi, Andres Arturo Garcia Menendes aveva abbandonato il sogno di diventare un giocatore di baseball, si era accorciato il nome e si era dedicato al cinema, pensando che un giorno avrebbe trovato il coraggio di raccontare. La fama era arrivata, registi come Francis Coppola, Ridley Scott e Brian De Palma l’avevano scritturato per dei film indimenticabili come Il Padrino e Hollywood l’aveva definito attore «serio, privato, imperscrutabile». Persino il suo matrimonio con Maria Victoria, che dura dal 1982 e dal quale sono nate tre splendide figlie, è una rarità in un mondo del cinema dove anche i cuori sono effimeri.
Poi sedici anni fa, Garcia aveva deciso di trasformare la sua nostalgia per la vecchia Cuba in un film su Castro e la sua rivoluzione. Voleva farne uno specchio fedele di quella che era stata la sua Avana e non la somma degli stereotipi politicamente corretti frequentati dalla Hollywood filocastrista e filoguevarista. The Lost City è arrivato nelle sale americane dopo un cammino difficile: i festival del cinema si sono rifiutati di programmarlo e alcuni Paesi sudamericani l’hanno già bandito. Scritto da un altro cubano, Guillermo Cabrera, narra la storia di Fico, proprietario di un night club di successo dell’Avana e spettatore della rivoluzione di Castro. Intorno a lui c’è quel mondo della classe media che aveva sostenuto l’ascesa di Fidel nella rivolta contro Batista fino a formare il suo primo gabinetto composto da sette avvocati, due professori universitari, tre studenti, un medico, un ingeniere, un architetto, un ex sindaco e un colonnello.
«Nel suo film sulla rivoluzione cubana, Garcia non ci mostra quasi mai i lavoratori per cui quella rivoluzione era stata combattuta», scrive Peter Reiner sul Christian Science Monitor: «The Lost City manca completamente di complessità storica».
«Garcia si sofferma solo sulla perdita dei benefici di una piccola minoranza di ricchi», gli fa eco Michael Atkinson sul Village Voice: «i poveri non si vedono mai». Si accanisce ancor di più Rex Reed sul New York Observer: «The Lost City non si sofferma mai sui poveri lavoratori la cui disperazione aveva incendiato la rivoluzione». Si diverte anche il critico del New York Times, che prende in giro la pellicola di Garcia: «Come si vede, la vita cubana prima di Fidel Castro era proprio tutta rose e fiori».
Gli ha risposto, ferocemente, Human Events un sito conservatore su cui scrive un cubano di come Humberto Fontova, uno dei pochi che si è lanciato a difendere Garcia: «Hollywood, basta con l’ignoranza.

Andate a leggere il rapporto redatto dall’Unesco nel 1957 dal quale si capisce che Cuba era composta per la maggior parte dalla classe media, con uno stipendio medio giornaliero più alto di quello del Belgio, della Danimarca, di Francia e Germania».

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