Quando Gianandrea Gavazzeni scoprì lopera, mollissime damigelle reclinavano vezzosamente il capo nellintonare canzoni; a notte saliva dietro i lauri una luna giallastra, il tenore sosteneva cavallereschi eroismi e la maestosa donna sinteneriva; armigeri o cacciatori sussurravano a fior di labbro cori di congiura contro il tiranno; se ne andavano cautamente i coristi da ogni lato della scena strusciando le pantofole sul tavolato, rifugiandosi dietro le quinte e il fondale a rifiatarsi sui visi i loro aliti davvinazzati. Parole sue: ce ne racconta in un piccolo libro dedicato a Gaetano Donizetti, suo conterraneo bergamasco, del 1937. Gavazzeni, oltre che un direttore dorchestra destinato fatalmente a carriera importante, era un brillante compositore e pianista e frequentava le avanguardie letterarie, di cui era lettore voracissimo. Ma già guardava dentro lopera e il suo mondo anche con locchio e il cuore della gente, che mette insieme umile artigianato e nobile mito e spera desser rapita in una verità meravigliosa.
Nel decennale della morte, Gavazzeni è stato ricordato a Bergamo in una giornata di studio, aperta da una ricostruzione dellItalia e del mondo della sua giovinezza, nella relazione finissima di Franco Serpa, e conclusa da Mimma Forlani che ha rievocato le gusto le dichiarazioni del Maestro contro le sue opere giovanili che egli diceva «da me stesso dimenticate». Ma cresceva soprattutto il rimpianto per la sua presenza perduta.
Maestri come lui, personaggi come lui, non ce ne sono più, si sospira normalmente quando se ne parla; ma non ce nerano nemmeno ai tempi suoi. Chi vuol conoscerlo direttamente si può procurare le sue inconfondibili pagine di diario, raccolte in un cospicuo volume, Il sipario rosso, pubblicato da Einaudi. Cè, in rapidissime sintesi di scorcio, un viavai di personaggi importanti o gustosi dunepoca, anzi di epoche in perenne mutamento. Si va da Paolo VI ragazzo in viaggio, «pallido, silente», a Maria Callas quando «il grande cappello in paglia scura dava un tocco dombra alla sua tristezza»; da Kennedy «in piedi nellautomobile aperta, alla vigilia elettorale, tra il corteo carnevalesco dei vergognosi rituali americani» a Kruscev che lo applaudiva sorridendo dal palco del Bolscioi al Trovatore «con quel viso contadino e gioviale, pieno di luce fiduciosa».
Ci sono le immersioni nella letteratura e nella pittura dogni tempo, le reazioni alle operazioni didascaliche o interpretative nella musica e nel teatro: le contraddizioni di Béla Bartók nella revisione del Clavicembalo ben temperato di Bach, e i risentimenti verso il pezzo su Rinascita per lOrlando furioso dellAriosto riproposto da Ronconi, dove si diceva che la poesia anche più alta non è più consumabile ma va disarticolata e rifatta: «E se per me la poesia, la più alta ma anche la più piccola, fosse ancora consumabile, consumabilissima, come la mettiamo? E se nel mondo vi sono altri consumatori come me?».
Ci sono i paesaggi, le sensazioni che dettano, umori e pietas: i «cieli vuoti di campane» della Mosca del 64, e la riscoperta delle differenze sonore, nel tramutar dellora che passa, di quelle sentite da casa: «Dopo un anno dissipato in teatro, il battito dellanima riattinge alle campane bergamasche. Nel loro suono è il risveglio di luce».
Chi lo volesse conoscere invece per indizi, per immersioni teatrali e musicali, può ascoltare i suoi dischi, soprattutto quelli incisi un po alla brava ma dal vivo, a cominciare da Anna Bolena e Gli Ugonotti, che riscoprì alla Scala con operazioni drammaturgiche memorabili e compagnie vertiginose. Il racconto della storia rappresentata, la violenza del sentimento, la temperie storica precisa, la linea precisa ma respirata e libera del canto. Precari documenti di esecuzioni irrepetibili, per cercare di recuperare la presenza di lui.
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