A Gaza si spara, la tregua non regge Rapito il nipote di un leader di Fatah

Poche speranze riposte nel summit di domani alla Mecca tra il presidente Abu Mazen e i capi di Hamas. Voci di intervento israeliano

Segnali contraddittori da Gaza, insanguinata ormai da tre giorni da violenti scontri tra opposte fazioni armate palestinesi. Anche ieri le sparatorie tra miliziani del movimento integralista islamico Hamas (al governo) e forze fedeli al movimento laico-nazionalista Al Fatah (che esprime il presidente Mahmoud Abbas, più noto col nome di battaglia di Abu Mazen) sono continuate, in alcuni casi addirittura con l’impiego di mortai, e il bilancio complessivo è salito a 28 morti e circa 260 feriti. A partire dal pomeriggio, tuttavia, alcuni effetti della fragile tregua che nominalmente è stata concordata hanno cominciato a essere visibili: molti dei cecchini appostati da giorni sui tetti delle case della caotica città palestinese in riva al Mediterraneo hanno lasciato i loro nascondigli e per le strade hanno preso a girare pattuglie miste, composte da uomini di entrambi gli schieramenti, per cercare di imporre il rispetto del cessate il fuoco.
Contemporaneamente, qualcuno continua a gettare i semi della futura violenza: il nipote di Mohammed Dahlan, uomo forte di Fatah a Gaza e una delle figure più odiate da Hamas che lo considera un venduto all’Occidente, è stato rapito in una località della Striscia di Gaza. L'auto di Ashraf Dahlan, 25 anni, è stata intercettata la notte scorsa, mentre era in viaggio da Khan Younis, nel sud della Striscia, in direzione della città di Gaza. Il giovane, che lavora come autista presso l'ufficio dello zio, è stato aggredito e portato via: il sequestro è stato denunciato da fonti delle forze di sicurezza dell'Anp e la notizia ripresa dalla stampa israeliana.
Le speranze in una ricomposizione del pericoloso conflitto fratricida palestinese sono riposte nell’incontro di domani alla Mecca fra il presidente Abu Mazen e il leader supremo di Hamas (in esilio a Damasco), Khaled Meshaal, organizzato col patrocinio del re saudita Abdullah. Ieri ha annunciato la propria partecipazione anche il premier palestinese, ed esponente di Hamas, Ismail Haniyeh. Nessuno si fa troppe illusioni: un governo di unità nazionale tra due parti che non hanno neppure trovato un accordo per scambiarsi reciprocamente gli ostaggi è una chimera, ci si accontenterebbe del rafforzamento del fragile cessate il fuoco. Lo Shin Bet, il servizio segreto di sicurezza israeliano, ci crede poco: secondo le informazioni di cui dispone, sia Hamas sia Fatah stanno cercando di procurarsi quante più armi possibile, con l’obiettivo piuttosto scontato di «regolare i conti» con la fazione opposta. Gli scontri nella Striscia di Gaza, dunque, dovrebbero continuare nonostante tregue troppo fragili. In palio c’è, assai concretamente, il controllo del potere.
Visto il preoccupante scenario non c’è da meravigliarsi se in Israele c’è chi pensa all’eventualità di un intervento armato per evitare che la faida palestinese, alimentata da quantità crescenti di armi, sfoci in nuove avventure terroristiche nello Stato ebraico. Il quotidiano Haaretz ha pubblicato indiscrezioni attribuite a fonti anonime delle forze armate israeliane secondo cui un piano per una decisa incursione nella Striscia è già pronto.
Il premier Ehud Olmert dice che Israele «segue gli avvenimenti dall’esterno» e secondo uno dei partecipanti alla riunione di ieri non vuole coinvolgimenti.

Così pure devono cessare del tutto la violenza e il terrorismo contro Israele». Il suo vice Shimon Peres, indicato come possibile successore del presidente della Repubblica autosospeso Moshe Katsav, ha detto pubblicamente di considerare un eventuale intervento israeliano «un errore».

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