Politica

A Gemonio Il patto del sigaro

Roma«Le pensioni, Giulio, non vanno toccate. Togliamole ai falsi invalidi che sono tanti». Giulio, cioè Tremonti «il capo dei soldi», obtorto collo ha recepito il messaggio del capo della Lega (che per indorare la pillola l’ha anche omaggiato di una scatola di sigari cubani...). Questo almeno a Gemonio, in casa Bossi, poi a Roma sarà un altro conto. Villa assediata da giornalisti, cameraman e fotografi, cui Bossi ha rivolto il consueto dito medio, mentre Calderoli gli chiedeva scherzando (ma non troppo), «Umberto, liberiamo i cani?». Il segretario federale ha ascoltato le informative dei suoi uomini fidati, su tre fronti. Il ministro dell’Economia sulla crisi finanziaria e sulle contromosse del governo, pressato dall’Europa. Calderoli (arrivato sulla sua nuova Bmw Gs 1200, un endurone nero con cui il ministro leghista macina migliaia di chilometri al mese) sulla riforma costituzionale e sul federalismo. Quindi il senatore leghista e sindaco di Besozzo (Varese) Fabio Rizzi sul nuovo codice delle autonomie e sulla relativa riduzione dei costi della politica a livello locale.
Il capo ha preso nota per discuterne direttamente con «un tale che si chiama Berlusconi». Nessun Consiglio dei ministri in vista, almeno così sembra dall’ondeggiare della testa di Bossi alla domanda dei cronisti. Ma il segretario federale porterà presto al premier l’esito del mini vertice di Gemonio: «Finire tutte le riforme che stiamo preparando» e rassicurare i mercati. Il Bossi del «patto del sigaro» è un leader quasi europeista, novità che si spiega con l’emergenza finanziaria italiana. «Dobbiamo andare dietro un po’ all’Europa», che ci condiziona, ma «positivamente», perché l’Ue, la Bce, «hanno il loro peso», e comunque «la cosa importante è che la Bce compri i titoli italiani».
Nella riunione a casa di Bossi il ministro dell’Economia è parso piuttosto preoccupato per la pressione dell’Europa, anche se ha sottolineato come i partner europei abbiano «apprezzato la manovra e chiesto soltanto di anticiparla». Si tratta di stabilire come anticiparla, cioè che misure mettere in campo per evitare che la cura (somministrata in modo non più graduale, come previsto) non stronchi il malato. In particolare le piccole e medie imprese, cruccio di Bossi ben chiarito a Tremonti. Ci sono delle «piccole idee» sulla fiscalità e sul lavoro che Bossi vuol discutere faccia a faccia col premier, a Roma, quanto prima.
Di certo, la tempesta che sta spazzando i mercati mondiali ha avuto un effetto politico anche sull’asse di governo Pdl-Lega, allontanando l’idea delle elezioni anticipate dall’orizzonte del capo leghista. «Non c’è il problema di elezioni adesso» dice Bossi, «come si fa? Certo non votiamo dopo il 2013...». Le urgenze sono altre: «Per tanto tempo il Paese ha speso più di quanto poteva e un bel giorno la realtà ha preso il treno ed è venuta a trovarci» dice Bossi filosoficamente.
Calderoli ha illustrato la possibile riforma costituzionale (già passata in Cdm) intersecata coi decreti del federalismo fiscale già chiusi o in dirittura d’arrivo. La speranza della Lega è che si possano anticipare anche gli effetti del federalismo, che allo stato attuale sarà tangibile solo dal 2013 e a pieno regime nel 2018, troppo tardi per raccoglierne i frutti elettorali. L’altro capitolo è la riduzione dei costi della politica. Qui la Lega ha una posizione sulle Province che non è, come accusano gli anti-leghisti, di pregiudiziale rifiuto a ogni taglio. Anche nella riunione di Gemonio si è discusso della razionalizzazione delle autonomie locali, formula complicata che però significa, nella bozza del Carroccio, un taglio alle amministrazioni provinciali sotto i 150mila abitanti, o «anche di più, dipende dalla densità territoriale» spiegano dalla Lega. Via quelle piccole, ma prima ancora le Province delle aree metropolitane (Milano, Torino, Firenze, Bologna, Roma), che generano i costi maggiori.

La riforma leghista prevede, in parallelo al taglio delle Province inutili, l’accorpamento dei comuni piccoli («la metà dei comuni italiani sono sotto i 5mila abitanti») e il trasferimento di deleghe dalle Regioni verso le Province rimanenti, che sarebbero quindi potenziate e concepite come una sorta di assemblea di sindaci, con l’elezione del presidente e uno snellimento della burocrazia (e dei costi).

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