Quando un pezzo grosso della finanza come Cesare Geronzi, dopo solo un anno, viene estromesso dal suo prestigioso incarico, si apre subito la ricerca del retroscena. Si disegnano scenari di battaglie in corso, di nuovi assetti di potere, di equilibri in via di formazione. Quelle rare volte in cui un potente molla, si ha l’urgenza di capire come e chi riempirà il vuoto. Non saremo certo qui a sostenere che il siluramento del presidente delle Generali non provochi conseguenze. Ma nell’orgia di insinuazioni si perde di vista cosa è successo. Il consiglio di amministrazione delle Generali ha di fatto sconfessato il suo presidente per ragioni piuttosto mondane. Geronzi avrebbe commesso, secondo il consiglio, degli errori nella gestione della propria funzione. Vi è inoltre una questione più complessa e che attiene alla rete di tutele della grande finanza italiana, venuta meno da tempo.
Partiamo dalla gestione delle Generali. Si tratta della più importante realtà finanziaria italiana. È controllata da Mediobanca, che con il 14 per cento delle azioni da sempre ne determina le scelte. Il leone di Trieste è sonnacchioso per sua natura e la sua riservatezza, ereditata dal modus operandi di Enrico Cuccia, è proverbiale. Generali, fino a quando Cuccia e il suo delfino Vincenzo Maranghi comandavano in via Filodrammatici, si poteva considerare (si perdoni la semplificazione) eterodiretta. Con il tempo e con il mercato, questo cordone ombelicale si è sfilacciato. Ma resta. In poco meno di un anno, a Geronzi sono stati addebitati due peccati mortali. Il primo: non aver saputo tenere a bada il consiglio di amministrazione. I suoi componenti hanno litigato a colpi di interviste sui giornali di mezzo mondo; il vicepresidente del gruppo si è addirittura astenuto dal votare il bilancio. Si è passati dai silenzi di Cuccia alla rissa condominiale.
Il secondo peccato mortale che gli viene attribuito è quello di aver cercato un nuovo fronte di azionisti alternativi a Mediobanca. Il giovane e brillante amministratore delegato, Alberto Nagel, che ha avuto Geronzi, fino all’anno scorso, presidente della sua banca, ha deciso di rompere gli ultimi indugi solo quando ha capito che Geronzi avrebbe cercato di giocare su più tavoli, di creare una pattuglia di azionisti che lo sostenessero alternativa a quella di Mediobanca.
Con l’uscita di Geronzi i problemi del consiglio di amministrazione non si placano. Tutt’altro. Al suo interno, ieri, si è trovata una maggioranza che per motivi diversi è stata concorde nel mettere in discussione il presidente. Nei prossimi mesi si dovranno ricucire i rapporti, ridefinire i ruoli. Diego Della Valle, il consigliere indipendente che per primo aveva posto la questione del ruolo di Geronzi, può certamente oggi dire di aver dato l’innesco a tutta l’operazione. Ma c’è da scommettere che una parte dei consiglieri che ieri lo hanno seguito su Geronzi, domani potrebbero stare da un’altra parte. Un consigliere confessa al Giornale : «Della Valle è un ottimo imprenditore, ma un pessimo consigliere». Insomma, se questo è il clima, ne vedremo ancora delle belle.
A ciò si somma il ruolo dell’amministratore delegato, Perissinotto. Per dirla con uno dei membri del cda: «Di fatto ora è sotto osservazione ». Non conviene a nessuno decapitare i vertici della prima società finanziaria italiana. Ma una parte del consiglio è piuttosto allergica a molte delle ultime mosse fatte proprio dall’amministratore. Da oggi in avanti avrà tutte le carte per giocarsi la partita da solo. Ma, come si dice, la sua poltrona scotta.
Tutto ciò avrà una conseguenza anche in Mediobanca. È difficile pensare che la frattura che si è avuta con la componente francese (Bolloré è stato sempre a fianco di Geronzi) non si riverberi anche nella banca di piazzetta Cuccia. Qui i francesi fanno parte di un patto di sindacato con il loro 10 per cento. Fonti vicine al governo fanno capire che un nuovo fronte con Parigi non si dovrà aprire. Insomma, l’ipotesi che taluni accarezzavano e cioè quella di compensare lo smacco dei francesi in Mediobanca con un loro maggiore ruolo nelle assicurazioni in cerca di socio forte dell’ingegner Ligresti è fuori discussione. Per farla breve, Bolloré e company se volessero sbarcare in Fondiaria Sai la dovranno pagare e a caro prezzo. D’altronde Unicredit non ha alcuna intenzione di mollare l’osso senza recuperare integralmente i circa 600 milioni che ha versato da quelle parti.
Ricapitolando. In Generali è stato spazzato via quell’asse francesi-Geronzi che ha governato un buon pezzo del salotto buono del capitalismo italiano dall’uscita di Maranghi in poi. E già da oggi in Mediobanca si sta cercando un nuovo accordo con i soci francesi, ma da una posizione di forza.
Dicevamo, però, che è anche venuta meno quella rete di tutela della grande finanza che per anni ha rappresentato una costante in Italia. Non si può ovviamente dire che il governo sia stato all’oscuro di tutto ciò che avveniva a Trieste (per la verità i consigli Geronzi si ostinava a farli a Roma). Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sembra oggi molto interessato all’evolversi del capitalismo italiano. È suo il tocco decisivo per le nomine nelle ex partecipazioni statali. È suo l’impulso alla battaglia contro i francesi in Parmalat ed Edison. Come fu anche sua la benedizione, un anno fa, per il passaggio di Geronzi da Mediobanca a Generali. Ma oggi i rapporti tra politica e finanza non sono certo quelli della prima era Geronzi. Alla politica resta un forte potere interdittivo, ma certo non la scelta diretta dei board , stile Cicr. Geronzi non ha avuto alcuna sponda governativa nella sua battaglia di resistenza alle Generali. E in molti leggeranno la sua uscita come un colpo basso al potere berlusconiano. Sicuramente perde peso il banchiere più vicino al cavaliere, uno dei pochi che gli ha dato credito, mentre il resto del mondo (compresa Mediobanca) chiudeva le porte. Ma il berlusconismo è sempre stato alieno a questo mondo, che lo ha sempre tenuto ai margini. Il suo potere non si è mai fondato nell’establishment economico. È forse per questo che le partite Generali, Mediobanca, e prima Telecom, lo hanno visto distratto e talvolta assente. Oggi Tremonti si è messo al centro della scena economica finanziaria. Gli strumenti che ha a disposizione, grazie al cielo, non sono più quelli di Andreotti. Può accompagnare le scelte dei privati, può cercare di condizionarle con quel metodo relazionale che è stato subito ribattezzato Aspen, ma le leve oggi più di ieri sono nelle mani di chi per comandare tira fuori i quattrini. Sarà un caso ma i due attori principali di questa vicenda restano due ricchi imprenditori.
Della Valle, che non ha un titolo Generali, ma che ha poco da perdere in questa vicenda e Francesco Caltagirone che con il suo abile silenzio e con i suoi quattrini investiti a Trieste ha determinato (e determinerà nelle prossime settimane) gli assetti all’interno del Leone triestino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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