La generazione dei global-pendolari

Li chiamano «immigrati di lusso»: professionisti, funzionari delle organizzazioni internazionali, consulenti delle multinazionali. Nei Paesi dell’Osce sono 27 milioni di persone che ogni giorno si spostano per lavoro, con la valigia sempre pronta

La generazione dei global-pendolari

Sono i cittadini di chissà dove. Quelli che danno uno sguardo distratto ad un mondo in apparenza senza confini e sono sempre pronti a voltargli le spalle e a partire, verso un’altra destinazione. Di Stato in Stato, di continente in continente, di capitale in capitale, senza fermarsi mai. Emigranti? Certo, ma di lusso. Niente a che vedere con i loro padri, con le povere generazioni transfughe in cerca di un nuovo mondo dove guardare al futuro, semmai questi sono nomadi ricchi e colti globetrotter per professione. E il futuro l’hanno scritto sui codici di un biglietto d’aereo di sola andata.
Adesso che l’estate non è più chiusa per ferie ricominciano. Determinati, instancabili, cosmopoliti riprendono la loro lunga marcia verso l’ignoto. Nella valigia non hanno né ricordi né rimpianti e nemmeno radici. Portano l’essenziale per farsi largo (e soprattutto per far carriera) tra uomini e donne come loro, dallo stesso identikit: 30-40 anni, preferibilmente single o senza rapporti sentimentali duraturi, molto ambiziosi, almeno due o tre lingue parlate alla perfezione, reddito davvero alto, professioni sempre d’élite che spaziano dai top manager di multinazionali agli esperti di finanza, dai banchieri agli alti funzionari di istituzioni pubbliche, dai dirigenti delle organizzazioni internazionali ai consulenti di centro di tecnologie informatiche e della comunicazione. Professioni che esercitano stando un paio d’anni qui e un paio d’anni là, all’altro capo del mondo, senza voltarsi indietro mai.
Una generazione millemiglia. O duty free, come già la chiamano i sociologi, pronti a scandagliare ai raggi X questa classe dirigente globale dal modo di vivere itinerante. In tutto sono ormai più di ventisette milioni di persone, oltre il 5 per cento della forza lavoro complessiva dei Paesi ricchi dell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici, e quasi un terzo degli ottantasei milioni di lavoratori migranti nel mercato globale, indicati dal rapporto 2004 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, ad aver scelto questa vita. In tanti hanno provato a catalogarli, hanno tentato di comprendere come possono trascorrere una parte importante della vita vestendo gli abiti (gessati) e i tailleur (griffati) dei pendolari di lusso, in camere di albergo o in appartamenti esclusivi, dove è inutile che investano su dettagli di stile personalizzati, tanto, presto o tardi, dovranno chiudere la porta e restituire le chiavi.
Ma chi sono questi nomadi per professione che emigrano da Shangai a Sidney, da Washington a Londra? «Li possiamo definire cittadini del nulla; per loro una grande parte del mondo è diventata simile ad un campo da gioco dove starci giusto il tempo di una partita», spiega Paul Kingsnorth, sociologo e giornalista inglese, autore di tanti saggi tra cui Un no e tanti sì, e che ha girato a lungo il mondo per conoscere da vicino questa enorme tribù viaggiante. «Si tratta di uomini e donne appartenenti ad un’élite globale, che vagano senza radici da un hotel ad una sala riunioni, da un meeting ad una lounge degli aeroporti internazionali. Che vivono in un mondo plastificato, tutto uguale, fatto di “non posti”, ossia di luoghi che non frequenteranno mai per più volte di seguito, un universo costituito da tracce urbane troppo simili tra loro per rendere distinguibile una città dall’altra, perché dalla loro camera d’albergo vedono sempre le stesse insegne al neon di qualche multinazionale o di centri commerciali uguali in tutto il mondo».
Quello che a loro manca è anche l’idea di appartenenza e la voglia di affezionarsi alla gente, ai luoghi, a città dove si sentono sempre in transito e perciò eterni stranieri. In pratica loro esistono in gran numero in ogni nazione ma non si affezionano a nessuna. «Appartenere ad un luogo, a un pezzo di terra, ad una comunità significa conoscerla e prepararsi a difenderla, se necessario», spiega ancora Paul Kingsnorth. «Loro no, loro sono apolidi e perciò non riescono ad avere nessun tipo di rapporto né con la nazione in cui sono nati né in quella che li ospita, per questo non avranno mai radici e si troveranno a disagio anche il giorno in cui decideranno o saranno costretti a fermarsi, perché sono disabituati ad integrarsi». Attratti da nuove opportunità di carriera e da stipendi ancora più alti migrano ogni due o tre anni al massimo verso un altro destino, trascinandosi dietro, come diceva Thomas Mann in Considerazioni di un impolitico, «il senso della mancanza di confini». E tutti si portano appresso il medesimo «slang» che li fa discettare ventiquattr’ore su ventiquattro dell’importanza della crescita, della necessità dello sviluppo, della fede nella tecnologia, dell’apologia del progresso.
Eppure a vederli non sembrano nemmeno sfiorati da questi dilemmi: hanno l’aria sicura dei conquistatori del mondo, inappuntabili e austeri, assorti e distaccati, sanno di essere un investimento per le aziende che li coccolano con stipendi stellari e benefits di ogni tipo, dall’assicurazione personalizzata all’abbonamento alla palestra più trendy, dalla casa da nababbo ai contatti con chi davvero conta, e perciò puntano a ricambiare, a gratificarle con un impegno lavorativo che non conosce le lancette dell’orologio e con rendimenti professionali decisamente migliori degli hedge fund. Proprio per questo non sono consentite distrazioni, sentimentali e non, perlomeno non è permesso lasciarsi coinvolgere eccessivamente dalle proprie passioni, di qualsiasi tipo siano, pena il rischio di cadere dal piedistallo e di veder contemporaneamente vacillare il proprio io. Quasi tutti vivono alla giornata, pensando soltanto a bilanci, a progetti finanziari, a software multifunzionali in attesa di prendere un aereo che li porterà chissà dove: «Questa generazione duty free abita un mondo vuoto», sottolinea ancora lo studioso britannico. «Assaggiano il cibo di ogni nazione ma non sanno come si cucina. Bevono le bottiglie più ricercate di acqua minerale dal minibar ma non hanno mai assaggiato l’acqua di una sorgente di montagna, non stanno mai in un posto tanto quanto basta a capirlo veramente, prendono il meglio di ogni cosa ma sono disconnessi dalla realtà». Abitano, insomma, un mondo da reality show che improvvisamente diventa reale, concreto, comprensibile soltanto tra le pareti di un ufficio, il loro regno, quello su cui sanno davvero governare, dalle 9 alle 21, orario continuato.

Per tutto il resto ci sarà tempo, chissà, quando, raggiunto il loro obbiettivo sociale, professionale ed economico, finalmente diranno basta alla vita di pendolari transfughi e si fermeranno, forse, prima o poi, per sempre.

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