La generosità di Garibaldi con i soldi dei Borboni

Caro Granzotto, cosa mi va dicendo? Nelle vesti di «dittatore» dell’incamerato Regno delle Due Sicilie Garibaldi maneggiava a piacimento il danaro depositato in banca dai sudditi e dal sovrano? Ma non era un santo patriota disinteressato? Questa proprio non ce l’avevano raccontata sui banchi di scuola.


Perché no, caro Menicucci. Fa sempre piacere discorrere di quel simpatico saltafossi. Il quale, autoproclamatosi Dittatore, si attribuì poteri illimitati e insindacabili sull’amministrazione dei depositi - pubblici e privati - del Banco delle Due Sicilie e del Banco di Napoli. Un vero tesoro (ne saprà qualcosa Vittorio Emanuele) perché, com’è ben noto, il Regno era lo Stato più ricco, incommensurabilmente più ricco, della Penisola. Bene, messe la mani sulla cassa l’Eroe dei due Mondi cominciò col prelevare un milione di ducati dalla prima delle banche e due milioni dalla seconda. Causale: «Per la causa». A quanto corrisponde un milione di ducati del 1860 è difficile stabilirlo con esattezza. Gli esperti azzardano 200-250 milioni di euro. Una bella cifretta. Dopo aver sistemato «la causa», Garibaldi sistemò anche l’armatore Rubattino, versandogli mezzo milione di ducati a titolo di rimborso per l’utilizzo del «Piemonte» e del «Lombardo» che gloriosamente traghettarono i Mille da Quarto a Marsala. Facendo così pagare ai Borboni e ai duosiciliani le spese sostenute per annettersi il Regno (procedura precedentemente adottata, in grande stile, da Napoleone). Sistemate queste due pratiche, il Dittatore passò alle spese spicciole disponendo una serie di vitalizi e di regalie che vanno da quelle destinate ai familiari del regicida Agesilao Milano a quelle a favore di Marianna «la sangiovannara», sorella del capo della camorra Salvatore De Crescenzo. In tutto furono elargiti 85mila ducati, faccia lei il conto in euro, caro Menicucci. Attingendo poi direttamente ai beni della Casa Reale, Garibaldi dispensò sei milioni di ducati a coloro che avevano o che sostenevano d’aver subito ingiustizie dai Borboni. Per i napoletani fu come vincere al lotto: le cronache raccontano che giunti al cospetto dell’ufficiale pagatore bastava accennare a «chillofetiente d’o re Nasone» (o Franceschiello, a scelta) e scattava il contributo. Sempre con i soldi altrui, don Peppino si mostrò generosissimo coi suoi sodali, coi compagni dell’«epica avventura». Qualche esempio: ad Antonio Scialoja (ministro delle Finanze del governo provvisorio) furono versati, in un sol colpo, 200mila ducati; 52mila a Aurelio Saliceti (l’ex triumviro); 60mila a Raffaele Conforti (ministro per un paio di mesi). Niente, comunque, rispetto a quanto si beccò Alessandro Dumas (père). Ovvero l’uomo che con i suoi articoli, pubblicati dalla stampa francese, con il suo LesGaribaldiens, cronaca in forma di epica della spedizione dei Mille, fu l’artefice del mito di Garibaldi e della successiva leggenda. A Dumas, braccato da creditori di tutt’Europa, il buon Peppino versò una cifra enorme, di quelle che anche il più pagato manager d’oggi si sognerebbe. Risolse il problema della causale (mica poteva coprirlo d’oro in quanto aedo delle Camicie rosse) nominandolo lì per lì funzionario del governo dittatoriale con l’incarico di Sovrintendente agli scavi di Pompei. Dumas! Insomma spese e spanse a piene mai, facendo fuori non so quanti milioni di ducati.

Va però aggiunto che non se ne mise in tasca nemmeno uno. Tant’è che quando fu posta in vendita l’altra metà della sua Caprera, poté acquistarla solo grazie a una provvidenziale colletta di simpatizzanti (inglesi e, of course, massoni).

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