Bocelli sbanca il botteghino Ma il successo è «Turandot»

Lo chiameremo il Natale dei tenori. Il Carlo Felice festeggia tra i frizzi, i lazzi e i capricci delle primedonne, tra (poco) repertorio impegnato, canti delle feste (e fin troppo inflazionati), forfait dell'ultima ora. Bocelli canta, Armilato rinuncia. Bocelli sbanca il botteghino, ma il successo - lo diciamo, lo scriviamo, lo urliamo - è Turandot. Qui la qualità non si misura con le poltrone vendute: il concerto del 22 dicembre, tra Jingle Bells, campanelli e Panis Angelicus - con tutto il rispetto per lo spirito e lo spartito natalizio - non è «pane» per i denti di un teatro di questo calibro, che dovrebbe dedicarsi a ben altro repertorio. La Turandot di Giuliano Montaldo invece lascia a bocca aperta perché è un capolavoro. Sontuosa e monumentale, cattura lo sguardo e irretisce: horror vacui, denso e pregnante. Ma lo spazio ha dei confini rigidi e non si sgarra, tutto e tutti hanno una collocazione secondo un preciso ordine gerarchico. Intoccabile. Non spettacolarità fine a se stessa, bensì parte integrante della drammaturgia, rituale macabro che non è cerimonia, ma invece realtà: quella agghiacciante che emana dalla principessa Turandot. Bravissimo Donato Renzetti che dal podio ha diretto con maestria e partecipazione, ottenendo un'ottima sintonia tra buca e palcoscenico. Bella la Turandot della Dessì: una resa del personaggio originale, frutto di grande maturità interpretativa, che della donna ha messo in evidenza non la glaciale inflessibilità, quanto invece l'umanità e la personalità dalle mille sfaccettature. Bravo Mario Malagnini (Calaf), timbro caldo e tecnica solida, che ha dato il giusto spessore drammatico al personaggio. Roberta Canzian (Liù) ha messo in luce una bella musicalità, specie nella sua splendida aria di congedo «Tu che di gel sei cinta».

Ottima interpretazione per il trio Ping Pong Pang (Francesco Verna, Enrico Salsi, Manuel Pierattelli); bene Ramaz Chikviladze (Timur) e Fabrizio Beggi (un Mandarino). Meno appropriato Massimiliano La Guardia (l'Imperatore), che ha caricato troppo il timbro «anziano».

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