«L'unico generale che si comportò fino all'ultimo da generale, fu un generale falso». Queste sono le parole con cui Indro Montanelli descrive l'eclettico personaggio che ha prima conosciuto a San Vittore nel 1944, poi parzialmente reinventato nel suo libro del 1959 «Il generale Della Rovere».
Precedentemente all'uscita del libro, verso la fine dell'influsso dei temi bellici sulla corrente neo-realista, il maestro del cinema Roberto Rossellini decise di trasformare il racconto in pellicola e di ambientarla principalmente a Genova (vincendo, inoltre, il Leone d'oro a Venezia).
La narrazione di una delle migliori produzioni del dopoguerra italiano orbita costantemente intorno al suo protagonista: Giovanni Bertone, napoletano residente a Genova, ex ufficiale radiato dai ranghi, sordido truffatore, malato di donne e gioco d'azzardo al quale capita quasi fortuitamente l'occasione di redimersi. L'interpretazione magistrale di Vittorio De Sica garantisce al film una base solida per esprimere tutta la profondità delle emozioni suscitate da un personaggio tanto complesso. Nella prima parte del film, vengono mostrati i furti riprovevoli di uno sciacallo che, millantando conoscenze influenti nel comando tedesco, estorce denaro ai poveri familiari dei partigiani arrestati dalla Gestapo. L'ombra nera del cappello che indossa non basta per nascondere dal suo volto la vergogna, soprattutto quando alcuni parenti nutriti di false speranze gli confessano i numerosi sforzi che hanno dovuto compiere per ottenere i soldi che lui andrà a giocare al casinò. Questo suo dimenarsi tra viscide promesse e improvvisate compravendite di gioielli falsi ha un termine quando la moglie di un partigiano giustiziato, per cui lui aveva assicurato di poter intercedere, scopre della morte del marito e denuncia la truffa.
Inizia quindi la seconda parte dell'opera, tutta localizzata all'interno del carcere di San Vittore a Milano nel quale Giovanni viene rinchiuso. Per sua fortuna, però, viene introdotto nel carcere in qualità di infiltrato; infatti la sua nota abilità ad ingannare aveva suggerito ad un colonnello tedesco che fosse più utile inserirlo con il nome fittizio di Emanuele Della Rovere, un generale badogliano catturato, al fine di ottenere decisive informazioni da altri partigiani detenuti. Quest'esperienza lo mette in contatto diretto con vite incentrate su patriottismo e coraggio, valori così lontani dalla sua infima quotidianità da ispirare in lui una rivoluzione interiore. In particolare, il suicidio di un suo vicino di cella preoccupato di rivelare informazioni, insieme al rispetto incondizionato che riceve dalle persone che lo «identificano», lo spingono a tatuarsi addosso le vesti di partigiano. L'apice dell'immedesimazione avviene nel momento in cui, dopo essere stato torturato, gli viene consegnata una lettera rincuorante da parte della moglie del generale Della Rovere. Di fronte alla possibilità di rivelare in cambio della libertà il nome di uno dei principali organizzatori delle azioni di resistenza, egli preferisce condividere la stessa sorte che ingiustamente stavano subendo altre persone. In un finale amaro e struggente, viene fucilato come il più classico degli eroi, gridando «Viva l'Italia!».
Ancora una volta si può notare un protagonista di una vicenda ambientata a Genova proveniente da un altra città, in questo caso Napoli. Questa tendenza, già sottolineata ad esempio nella presentazione di «Le mura di Malapaga», sembra riconducibile alla presenza del porto e al dinamismo che caratterizzano intrinsecamente la Superba. A differenza di altri casi, però, nel film discusso oggi il rapporto con la città in cui è localizzato varia: l'interesse descrittivo nei confronti del paesaggio e delle sue peculiarità decade, a favore di una dislocazione della storia dal preciso ambito urbano in cui si svolge. Genova e i genovesi vengono trattati come esemplificazione dell'Italia e degli italiani; il contesto che fa da sfondo alla vicenda ha caratteristiche storiche, non ambientali. Addirittura per lo spettatore è complicato accorgersi dello spostamento della vicenda da Genova a Milano, a causa soprattutto della prevalenza di riprese in interni e del frequente utilizzo del teatro di posa (contrariamente ai canoni neo-realisti). Questa possibilità è favorita anche dall'omogeneità della condizione dell'italiano nel 1944, per circostanze storiche che conferiscono all'opera una fruibilità molto ampia.
Questo sfondo compatto è ottimale per delineare un profilo che incarni la natura complessa e tragicomica degli italiani.
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