Enzo Tortora, il coraggio di essere liberale a Genova

(...) diamo volentieri atto della sua attenzione alla vicenda - che si attivò immediatamente per rimediare all'incredibile mancanza sulle targhe.
Però, per l'appunto, il calvario toponomastico seguito al calvario giudiziario di Enzo Tortora è l'ennesima prova di un uomo dimenticato dalla sua città. Anche e soprattutto perchè non era un uomo allineato alla sua città. Anche e soprattutto perchè non era un uomo di sinistra. E anche quando si fece portavoce delle battaglie del Partito radicale sulla giustizia giusta, che lo portarono all'Europarlamento, rimase liberale. Non del Pli di Zanone, non con la bandierina, «ma da liberali non ci si dimette».
Queste e tante altre cose sono raccontate in un bel libro di Daniele Biacchessi - che invece uomo di sinistra lo è sul serio - edito da Aliberti editore, intitolato Enzo Tortora - Dalla luce del successo al buio del labirinto, che arriva in questi giorni in libreria (15 euro). E, se possibile, è un po' la continuazione ideale dello splendido Applausi e sputi. Le due vite di Enzo Tortora di Vittorio Pezzuto (Sperling&Kupfer), molto più ponderoso e spostato sul versante giudiziario. Qui, invece, ovviamente, il grandissimo scandalo giudiziario c'è. Così come c'è l'altrettanto grande scandalo mediatico, con la stampa scatenata a sostenere le tesi accusatorie senza il minimo beneficio del dubbio, con pochissime eccezioni, fra cui sono orgoglioso che ci fosse il nostro Vittorio Feltri.
Ma si lessero cose che dovrebbero essere di lezione anche oggi a chi cavalca scandali che se sono veri fa benissimo a cavalcare, ma se non lo sono rischiano di far male a innocenti. Invece, si lessero frasi tipo questa di Camilla Cederna, la stessa che causò le dimissioni dal Quirinale di un galantuomo come Giovanni Leone, riabilitato solo dopo la morte: «Se un uomo viene catturato in piena notte, vuol dire che qualcosa di grave ha commesso». Un modo di ragionare che a me pare aberrante.
Ma il vero valore aggiunto del libro di Biacchessi è, a mio parere, la scelta degli articoli di Tortora che propone. Come quello sulla Nazione, dopo la morte di Giangiacomo Feltrinelli, mentre metteva dinamite sotto un traliccio: «Feltrinelli è finito “Vittima“ sì, ma vittima delle imprese alle quali da tempo aveva messo mano. “È sempre stato pazzo“ qualcuno comincia a dire. Non è un'attenuante. Un intero settore di gruppuscoli (la cosiddetta sinistra extraparlamentare) ha sempre avuto in lui il suo simbolo, il suo ispiratore. Chi ha visto Feltrinelli steso sul marmo dell'obitorio, più che pietà ha provato infinita pena. Pena per una vita grottesca, per una rabbia paranoica che lo aveva portato, nell'illusione e nel tentativo di essere sempre e comunque un capo a finire come il ribelle di una rivoluzione inventata. L'uomo che parlava di “strage di Stato“, di “repressione“, di “Pinelli assassinato“, di “estraneità agli attentati“ è rimasto vittima della dinamite». Difficile dirlo, allora. Tortora lo scrisse. Oppure, sul commissario Calabresi: «Non credo che Luigi Calabresi sia stato ucciso da tre pallottole. Io credo che sia stato ucciso dal piombo, sì, ma anche dal piombo di certi giornali che per lui avevano coniato da tempo, e in esclusiva, gli insulti più atroci, i marchi più roventi e infami, che avevano allestito il retroterra ideale per un delitto». A cui Tortora ricorda che Calabresi rispondeva così: «Credo in Dio e non li odio. Odio è una parola che proprio non conosco».
Era uno così, Tortora. Un uomo perbene. Un italiano medio. Un borghese orgoglioso di esserlo. Uno che piaceva a quella che Biacchessi descrive come «l'Italia con le case del pavimento lucido, con le pattine per non rigare per terra, le fotografie dei figli e dei genitori sui comodini, il trumò con la bottiglia di vermouth e i savoiardi, la bambola sul televisore, i copriletto ricamati e i portafortuna sui cruscotti delle macchine comprate a rate con le cambiali». Posso dirlo? Io che, pure, per anagrafe, l'ho vissuta solo di striscio, sono orgoglioso di quell'Italia lì. Mi ci ritrovo. Perchè è un'Italia di persone perbene, che hanno saputo risollevarsi da una guerra tragica, che hanno costruito passo passo la loro storia.
Un'Italia che lo stesso Tortora ringraziò pubblicamente citando le «lettere a migliaia» che riceveva quotidianamente. «Persone molto care che dicono: “Continui, il venerdì lei ci tiene compagnia“. Queste, credetemi, sono le soddisfazioni più vere. D'altro lato ci sono (e guai se non ci fossero), gli snob, i critici superciliosi, quelli che definiscono “paccottiglia provinciale e strappalacrime“ il mio programma. Liberissimi di farlo. Ma obbligati a dimostrare (loro che sono tanto in gamba, tanto bravi, tanto intelligenti) una volta varato un loro programma, di portarlo a indici di ascolto decenti. Io non ho mai avuto protettori o santi in paradiso. I miei santi stanno tutti in poltrona, ogni venerdì sera».


Ecco, anche in frasi come queste c'è la spiegazione di coloro che esultarono al suo arresto e fecero proprie le tesi dell'accusa, persino le più surreali.
Ma anche in frasi come queste c'è l'ennesima spiegazione della mia gratitudine per la lezione di un uomo perbene.

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