Cronache

Il manager che ha sconfitto la conservazione genovese

(...) più grande e più bella della nuova classe, costruita dai cantieri italiani, ha fatto un discorso che era l'immagine di questa Italia. Un discorso che si applica benissimo anche a Genova, dove la crisi della cantieristica si è sentita di più, ma anche dove le strategie aziendali di Fincantieri sembrano essere comunque efficaci. Nonostante le lentezze della nostra città e una certa inadeguatezza strutturale del cantiere di via Soliman.
Soprattutto - ne dubitavate? - tutto questo è avvenuto con l'opposizione strenua di gran parte della politica genovese, addirittura di una parte del centrodestra che prova a fare l'imitazione del centrosinistra. Dimenticando che, soprattutto se lo spettacolo non è di livello straordinario, l'imitazione è comunque peggiore dell'originale. Soprattutto, ha meno spettatori. E, allora, tanto vale difendere l'originale, le proprie idee, il modello liberale, ma anche riformista, con le sacrosante tutele dei lavoratori.
Ed è quello che ha fatto il numero uno di Fincantieri Giuseppe Bono, in questo il vero erede di Enrico Mattei. Uomo di partecipazioni statali che ragionano come imprese private, tanto che proprio lo stesso Bono l'ha detto davanti a De Luca: «Ringrazio i miei azionisti che fanno gestire l'azienda posseduta al cento per cento dallo Stato come se fosse assolutamente privata». Con i disagi della situazione: «Siamo credo l'unica azienda italiana che non ha una lira di contributi per la ricerca. Dobbiamo ancora incassare contributi su navi che abbiamo consegnato nel 2005, quando ancora c'erano...».
Eppure, di fronte a un manager così - che non è certo un uomo di estrema destra, ma che viene semmai dalla tradizione del socialismo liberale e della sinistra riformista - c'è stata una parte della sinistra istituzionale che vorrebbe essere di governo, ma che non lo sarà mai. Ricordo ancora le occupazioni notturne dello stabilimento, a volte anche con il tentato ingresso di estranei, avallate dalle istituzioni, i cui vertici a volte addirittura partecipavano alle assemblee e ai bivacchi. Ricordo, ad esempio, quando Marta Vincenzi si disse pronta a sdraiarsi sui binari per bloccare non so quale soluzione, che pure sarebbe stata positiva per l'azienda. Ma solo la galanteria di Giuseppe Bono gli impedì di pronunciare quello che pensava con la sua dialettica calabrese alla 'nduia piccantissima. Ma negli occhi gli balenava la voglia di essere lui il capotreno che guidava i convogli sulla linea di Marta.
Insomma, Bono. Che - anche a Genova, persino a Genova, contro Genova (avevate dubbi al proposito?), almeno contro una certa parte di Genova, non tutta - è riuscito a gestire la crisi, senza subirla e soprattutto senza licenziare nessuno e senza forzare le leggi, in modo che anche chi è rimasto a casa lo ha fatto in modo indolore, con il rispetto delle famiglie e delle storie. Nonostante 1.700 esuberi, gestiti con intelligenza e rispetto di persone e leggi.
Mentre Bono sorrideva, ricordando le quotidiane «torture» a cui sottopone i suoi collaboratori e augurando «tanti passeggeri, tanti» a Royal Princess «così recupererete un po' di altri soldi per farcene costruire altre», Vincenzo De Luca gli costruiva un monumento in vita: «La storia di Fincantieri è una storia di sofferenza, ma è anche una storia di successo, ed è una storia in qualche modo emblematica dell'Italia migliore». Mancava solo la statua equestre, e il resto c'era tutto.
A questo punto, qualcuno potrà giustamente obiettare. Ma che c'entra tutto questo col turismo? Come ha perfettamente capito Luciano Ardoino, che mangerebbe pane e turismo a colazione, pranzo e cena, la storia turistica di una città e di un popolo è la propria storia. E gestire bene un cantiere, non solo dal punto di vista economico, ma anche di gestione dei problemi e del suo rapportarsi alla città, è la stessa identica cosa che gestire bene un centro storico. E Genova, come racconta oggi la nostra Giulia Guerri parlando dell'iniziativa di Matteo Rosso, Stefano Balleari e Tommaso Giaretti per ri-trasformare il centro in un salotto, non sa far bene nè l'una, nè l'altra cosa.
È un problema di cultura. Di cultura di governo. E allora, ecco i Bono e i De Luca. Ecco, ad esempio, la ricetta di Fincantieri per affrontare la crisi, che non è quella di Doria di subirla, ma è quella di aggredirla, di morderla, di prevenirla con strategie aziendali.
Volete divertirvi? Andate a leggere le definizioni indignate con cui i politici genovesi - spesso, tragicamente, senza soluzione di continuità fra le coalizioni - attaccavano Bono, descrivendolo come l'affossatore di Fincantieri, appoggiati in questo anche da una parte del mondo dei media più interessati ad incensare i politici di cui sopra che i successi imprenditoriali.
Invece, Bono. Invece, Fincantieri. La scelta di fare operazioni strategiche come l'acquisizione dell'off-shore norvegese che ha piazzato benissimo la cantieristica italiana in quel mondo delle nuove tecnologie per l'uso delle energie in mezzo al mare. Stessa storia negli States, dove Bono ha acquisito un'azienda che l'ha messa sul mercato della Difesa a stelle e strisce. Risultato: un'impresa globale, con 20mila dipendenti e ventuno cantieri, sparsi su tre continenti. Con la filosofia genovese del «maniman», tanto per dire, non poteva succedere.
Prima ricetta, quindi, la sensibilità alle nuove richieste del mercato del lavoro, ma senza calpestare le persone. Seconda ricetta, la strategia. Terza ricetta, puntare sull'innovazione, investendo in ricerca, ad esempio col Cetena. E tutto questo non lo dice Bono, che ci starebbe, ma lo dice il governo, lo dice Enrico Letta e, soprattutto, lo dice Vincenzo De Luca.
Il risultato di questo lavoro «per proiettare nel futuro un'azienda che, così com'era, non avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere a lungo», per dirla con Bono, è un bilancio 2012 in attivo, con un fatturato di più di 4miliardi di euro, con ordini per oltre 6 miliardi e mezzo di euro, con 64 navi da crociera costruite dal 1990 e 41 negli ultimi dieci anni, nonostante la crisi mondiale che ha portato alla chiusura di decine di cantieri competitor.
A Genova attaccavano su carta intestata e su carta da giornale Bono perchè «portava poche commesse».

Detto tutto.
(4-continua)

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