Ospiti di «Raffaella», a 200 metri di profondità

Sta tutto in un contenitore convenzionale, da 20 piedi. E per tutto s'intende: l'ultima evoluzione tecnologica del mondo subacqueo, «Raffaella Saturation Diving System», impianto iperbarico per alto fondale che opera fino a 200 metri di profondità, progettato e realizzato dalla «Drafinsub» con sede al Molo Giano. Misure contenute, quelle del sistema iperbarico «alla genovese», che ne esaltano la funzionalità in modo da poter essere trasportato agevolmente a bordo, e consentire poi un lavoro efficace «nel profondo blu», in assoluta sicurezza. Ne spiega le caratteristiche il progettista, Marco Vacchieri, giovane «technical manager» di Drafinsub con un notevole bagaglio di cultura nel settore specifico: «Il nostro impianto portatile, indipendente e autonomo - sottolinea Vacchieri - consente di ospitare contemporaneamente quattro operatori, per un massimo di ventotto giorni, una decina dei quali trascorsi all'interno, ma in superficie, per poter ritornare progressivamente alle normali condizioni fisiologiche».
Uno sguardo rapido al complesso rende perfettamente l'idea anche a chi non è assiduo di aspetti e problemi dell'alta profondità: «Raffaella» pare una navicella spaziale, dotata dei comfort - si fa per dire - degli Spacelab, se mai con un pizzico di comodità in più: quattro letti, a due a due a castello, servizi igienici comprensivi di doccia, altezza al «soffitto» tarata sulla media italiana (anche Vacchieri, che misura oltre i sei piedi, non deve abbassare la testa...). Qualche problemino, per non parlare di disagio, sta se mai nel fatto che gli operatori subacquei, personale specializzato con tanto di qualificazione in una scuola di formazione a Londra, sostano complessivamente per quasi un mese dentro la capsula, respirano miscela di ossigeno e elio a pressione costante di 20 bar senza possibilità di uscire (compresi i dieci giorni di «decompressione»). Claustrofobia non ammessa. Il vitto, poi, deve tener conto delle condizioni interne: mica ti puoi stappare una bottiglia di spumante, introdotta tale e quale, pena un'esplosione! Per il resto, tutto è regolato da una cabina di regia complessa, dotata di sensori, telecamere, doppi e tripli comandi, a prova di «bomba» per prevenire o fronteggiare ogni eventuale inconveniente tecnico.
È sempre il technical manager di Drafinsub a spiegare: «Una volta portata l'atmosfera (la pressione) interna alla quota di profondità voluta, gli operatori, due per volta, si spostano nella campana di immersione che viene calata in profondità. Sul fondo, si svolge il lavoro determinato, sempre collegati “a doppio filo“, con una sorta di cordone ombelicale, all'unità principale e alla centrale operativa». Tutto semplice e lineare, all'apparenza, ma frutto di una tecnologia collaudata, a partire da quando un certo Adriano «Dino» Passeri - in realtà, un autentico mito della subacquea - s'è messo in testa di trasformare una passione in un lavoro specializzato. Nasce così Drafinsub (il nome dell'azienda è un omaggio al delfino, in genovese drafin, la creatura del mare preferita da Dino).

È il 1977, e da allora si susseguono interventi nei fondali del mondo che sono altrettante tappe di esperienza e progresso tecnologico: nella piscina di soppressione della centrale nucleare di Caorso, al largo di Portofino per trovare il relitto inabissato del Lear Jet con a bordo il presidente di Coca Cola Italia, o nella zona di Kracatoa in Indonesia per scovare un megayacht affondato. Una storia di successi targati Genova che oggi dà lavoro a 50 persone tra dipendenti e consulenti e continua a lavorare bene sul fondo, ma soprattutto a navigare a gonfie vele sul mercato.

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