Quando casa Savoia finanziò il complotto

Quando casa Savoia finanziò il complotto

di Pier Guido Quartero

Il 22 gennaio 1548, il Cybo entrava a Pontremoli con una diecina di uomini al proprio seguito ma veniva assalito dal governatore del luogo, a capo di archibugieri spagnoli. Ferito e catturato, venne trasportato a Milano dove venne processato e torturato. Essendosi, alla fine, riconosciuto colpevole di lesa maestà, venne decapitato la mattina del 18 maggio di quell’anno. Un altro congiurato, Ottaviano Zino, catturato a Genova, fu pure decapitato e il suo corpo esposto al pubblico. Quanto agli altri, che si erano tenuti a debita distanza dai territori della repubblica, vennero dichiarati ribelli e condannati a morte in contumacia, mentre i loro beni venivano incamerati dall’erario. Tra questi era compreso il Conte Scipione Fieschi, fratello del Gian Luigi protagonista della precedente congiura, con la cui condanna calava definitivamente il sipario sulle fortune della famiglia.
Passarono poi quasi trent’anni, prima che un nuovo tentativo fosse messo in atto. Con la morte di Andrea Doria, avvenuta nel 1560, non solo i contrasti tra nobiltà vecchia e nuova erano nuovamente emersi, ma si erano creati anche dissidi all’interno della nobiltà nuova, che comprendeva nei propri elenchi sia famiglie iscritte fin dal 1528 che parvenus, mercanti e artigiani i quali avevano raggiunto il nuovo status solo di recente (e che gli altri chiamavano, con disprezzo, serrabotteghe). Inoltre il ceto mercantile ed intellettuale era insoddisfatto, essendo tuttora in larga parte escluso dal governo della città, gli artigiani lamentavano la scarsa attenzione ai problemi del mercato della seta (fondamentale per la città in termini economici ma anche occupazionali e peraltro condizionato dai difficili rapporti con i Re di Francia, che esercitavano il potere su di una città, Lione, la quale costituiva il più importante centro internazionale per quel traffico) e la stessa plebe urbana protestava per le aumentate gabelle e per le difficoltà di approvvigionamento di grano, che determinavano uno stridente contrasto tra le condizioni di vita del popolo e quelle dei nobili (la storia è sempre la stessa...).
Ciò provocò malcontenti sempre più forti finché non sfociò, nel 1574, in proteste di piazza che indussero i maggiorenti della città a tentare di raggiungere un accordo. In un modo o nell’altro, dopo una serie di confronti infruttuosi, la parte popolare l’ebbe vinta: il 15 marzo del 1575 la legge del garibetto venne abolita, restituendo maggiori poteri alla nobiltà nuova, mentre venivano concesse agevolazioni fiscali al popolo. Uno degli artefici del risultato raggiunto fu Bartolomeo Coronato (o Coronata), nato a Genova verso il 1520 da Giovanni, ricco mercante ascritto all’«albergo» dei Pallavicino, e da Peretta, figlia di Nicolò Grimaldi Cebà, appartenente ad una famiglia della nobiltà «vecchia», il quale quindi, per questa sua doppia appartenenza sia alla nobiltà nuova che alla vecchia si trovava in condizione di poter mediare tra i due schieramenti. I risultati conseguiti a seguito della sollevazione del ’74 gli aprirono la strada per l’acquisizione di ruoli sempre più importanti finché, nel ’75, venne posto a capo dell’Ufficio di guerra, composto da sei nobili, che avrebbe dovuto gestire lo scontro in atto contro Don Giovanni d’Austria.
Dopo una serie di batti e ribatti tra le diverse fazioni, il 17 marzo del 1576 venne pubblicata la nuova legge, detta di Casale, dal luogo dove si era tenuta la trattativa che aveva portato al compromesso, che introduceva nuovi limiti alla crescita delle famiglie popolari, con conseguente grave disappunto degli stessi. Un mese prima, era stato sciolto l’Ufficio di guerra. Bartolomeo Coronato si trovava, a questo punto, fuori dai giochi. Forse dal desiderio di riacquistare un ruolo, o forse dalla sincera convinzione della necessità di un riordinamento maggiormente democratico della repubblica, nacque l’adesione di Bartolomeo al progetto di un colpo di mano contro il Doge, messo a punto da alcuni uomini, come Bartolomeo Montobbio, Pietro Cabella, Francesco Grosso e Giovanni Carbone che erano stati i principali esponenti del gruppo radicale nelle lotte precedenti; a questi si aggiunsero il colonnello Agostino Satis, suo nipote Giulio Croce, i capitani Scipione Bacigalupo, Battista Boggiano e Stefano Figarella, che avevano militato nell’esercito dei «nuovi», il medico Silvestro Fazio, costretto in precedenza ad abbandonare Genova per aver pronunciato una violenta orazione contro il doge Fattinanti, Giulio Sale, Teramo Brignole, Luca Martignone ed altri.
Sta di fatto che, a partire da ottobre, nella sua casa, mentre egli si trovava a letto perché afflitto da gotta, maturò il piano per eliminare il doge e i senatori e sollevare la plebe. Tuttavia quando, dopo una serie di incontri protrattisi sino ai primi di dicembre, i congiurati decisero di riunirsi in casa del Satis o del Sale per dare ordine al tutto, scattò l’operazione repressiva del governo. Sin dai primi passi della congiura, infatti, i magistrati furono messi al corrente del progetto da Scipione Bacigalupo, che spontaneamente confessò i nomi dei cospiratori e i loro propositi. Lo stesso Bacigalupo è, senza dubbio, l’autore della Rivelazione della congiura Satis e Coronata, conservata in due copie nella Biblioteca universitaria di Genova. L’arresto dei congiurati avvenne il 10 dicembre. Dopodiché questi vennero portati davanti alla Rota criminale per essere giudicati. Va anche detto che questa Rota era stata istituita con la stessa legge di Casale citata prima e che il Doge ed il Senato non la vedevano affatto di buon occhio in quanto costituiva un potere eccessivamente autonomo. Tanto autonomo che condusse il processo con particolare lentezza e dedicando cure più attente (leggasi: torture) ai testimoni a carico, per quanto questi si fossero presentati spontaneamente, che non agli indiziati, ottenendo quindi di far passare a chiunque altro la voglia di farsi avanti. Il 28 luglio 1577 tutti gli imputati vennero prosciolti e un mese dopo furono lasciati in libertà. Dopo poco tempo si permisero perfino di chiedere che venissero processati alcuni Senatori, tra cui Ambrogio Spinola, valorosissimo generale noto in tutta Europa per le proprie capacità, sostenendo che questi avevano brigato per indurre Scipione Bacigalupo a testimoniare il falso.
Il Senato reagì con forza. Il Satis, che nel frattempo era fuggito, venne attirato in un tranello e, condotto nella casa di Ambrogio Spinola, sottoposto a tortura fino a quando rilasciò piena confessione. A questo punto la Rota, i cui precedenti componenti erano stati rimossi ed esiliati e sostituiti con altri più allineati, procedette con estrema durezza, emettendo diverse condanne a morte. Anche per il Coronato fu disposta la decapitazione, ma non è certo che questa sia poi stata eseguita: il Dizionario biografico degli Italiani curato dall’Enciclopedia Treccani, cui ci si è ampiamente rifatti nella ricostruzione di questa vicenda, afferma con assoluta certezza (contro altri autori, come il Donaver, peraltro più datato) che in realtà egli visse in esilio a Saluzzo sino alla sua morte, avvenuta alla fine di giugno del 1584 e che sulla sua tomba venne posta la seguente epigrafe: «Bartolomeus Coronata patricius Genuensis e perfidia civium expulsus, qui auctor salutis Reipublicae fuit».
Dopo poco più di un’altra trentina d’anni, nel 1600, troviamo una nuova macchinazione. Maria de’ Medici, mentre va sposa ad Enrico IV, Re di Francia, deve far sosta per qualche giorno a Portofino, a causa del mare troppo agitato. Qui conosce Giambattista Vassallo, che la segue alla corte di Parigi, dove finisce per convincersi di poter tentare un colpo di mano per porre la Repubblica in mano ai francesi.
A questo scopo il Vassallo si accorda con il proprio cognato Giovanni Gregorio Leveratto, che pratica l’arte medica a Genova, per effettuare un’operazione di sorpresa. Leveratto dovrebbe aprire durante la notte una piccola porta che permette l’entrata entro le mura, consentendo così l’ingresso di un certo numero di armigeri francesi, i quali potranno poi assumere il controllo di altri punti di accesso dal lato mare e dare così modo ai propri compagni, sbarcati dalle navi ancorate davanti al porto, di prendere possesso dell’intera città.
La congiura tuttavia fallì, come spesso accadeva, a causa del tradimento di un confidente del Leveratto, tale Giovanni Antonio Marasso. Il Leveratto fu immediatamente arrestato, torturato, condannato a morte e poi decapitato sulla piazza del Vastato, oggi piazza della Nunziata. Il Vassallo, che viveva a Parigi, fu condannato a morte in contumacia e di lui le cronache non sembrano dare altre notizie.
Sempre con la stessa cadenza approssimativamente trentennale, nel 1628 troviamo negli annali una delle più famosa macchinazioni ai danni della Repubblica. In quell’anno Giovanni Antonio Ansaldo, figlio di un oste di Voltri, divenuto mercante e infine insignito della qualifica di Conte da parte dei Savoia (il che potrebbe indurre a pensare che a quei tempi la mobilità sociale fosse, malgrado tutto, cosa più agevole di quanto non sia oggi), venne incaricato dal Duca Carlo Emanuele di trovare contatti a Genova ed organizzare una trama per far cadere la città nelle sue mani.
Tra le persone con cui l’Ansaldo entrò in relazione vi era anche un certo Giulio Cesare Vacchero (o Vachero), nativo di Sospel (nella Contea di Nizza, allora sotto il dominio sabaudo) ed appartenente ad una antica famiglia, proprietaria fin dal 1200 di immobili in via del Campo, tanto che la porta della città la quale dà adito a quella via (porta dei Vacca, già porta di Santa Fede) prende il nome proprio da quella famiglia.
Il personaggio in questione, che aveva già avuto qualche trascorso burrascoso, tanto da aver dovuto scontare un periodo di esilio in Corsica, era legato ad altri uomini ambiziosi, come il giovane Fornari ed il medico Martignone. Così, dopo un abboccamento a Torino, venne ordita una congiura finanziata dalla casa Savoia, per cui i tre procedettero al reclutamento di rivoltosi che avrebbero dovuto impadronirsi del Palazzo Ducale, attendendo poi l’arrivo della cavalleria piemontese.
Anche in questo caso, però, ci fu un delatore.

Il 31 di marzo, uno dei congiurati, Gianfrancesco Rodino, dietro pagamento di una lauta somma, vendette l’informazione al Doge Gian Luigi Chiavari, che, non avendo il coraggio di assalire con le proprie guardie i rivoltosi riuniti nella casa del Vacchero, diede ordine al bargello di procedere all’arresto dei congiurati, limitandosi però ad indicargli solo l’abitazione i cui occupanti dovevano essere catturati e senza precisargli quale fosse l’imputazione.
(2 - continua)

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