di Ferruccio Repetti
È come se lui, Luca Borzani, che è persona libera da pregiudizi, fosse stato costretto a sdoppiarsi e poi perfettamente a ricomporsi in un'unica dimensione, prima di mettersi a scrivere il libro «La guerra di mio padre»: da un lato lo storico, dall'altro il figlio, figure distinte per natura, ma amalgamate per convinzione nel restituire una vicenda individuale, riservata, privatissima, trasformandola in testimonianza di valore universale. Certo, alla base c'è la coscienza dello storico, che lo distingue come fosse una seconda pelle. C'è - o almeno, così si pretende sempre - la sua visione distaccata dalla passione, dal sentimento, dall'essere, in qualche modo e in qualche forma, coinvolto nelle vicende che va a individuare e scrutare, a volte anche a scoprire, e finalmente a raccontare. Sempre «laico», per Dio! Sempre eticamente irreprensibile nell'esaminare, senza dare voti in pagella, la Storia e chi ha fatto la Storia. Fitta, magari, di tante piccole storie. Anche dietro le quinte.
È già difficile, in ogni caso, rispettare i passaggi e i doveri di questo percorso, mantenere il distacco, l'asetticità nei giudizi, l'equilibrio nelle interpretazioni (quali giudizi, se si rivelassero pregiudizi? Quali interpretazioni se sconfinassero nelle opinioni?). L'imperativo è: «Primo, spersonalizzarsi. Solo obiettività, a tutti costi». Una parola! Tanto più difficile, però, «chiamarsi fuori» quando lo storico scopre e finalmente racconta la piccola grande storia di suo padre. Che lui, lo storico, conosceva bene, o meglio: credeva di conoscere bene, per via degli anni di vita in comune, in tutte le sfumature, i principi, che vanno ben oltre il legame di sangue. Tanto per dire: l'affetto, il rispetto, l'integrità, il rigore morale, la riconoscenza, la cultura, l'onestà intellettuale, e - come no? - l'esempio.
Sì, di questo, Luca - il figlio, prima che lo storico - sapeva tutto, era un vissuto che portava negli occhi e nel cuore, quando... quando ha trovato un plico di lettere e un diario che è uno scrigno interiore, e s'è messo - Luca lo storico, come se fosse altra cosa dal figlio - a scrutare, ad assimilare. E finalmente a raccontare. Come fosse un dovere rendere partecipi di un'esperienza contemporaneamente intima e collettiva. È la storia, cioè la Storia, di papà Giovanni. Sconosciuta, anzi nascosta anche ai familiari. Storia tragica com'è tragica la sofferenza patita per restare fedele alla propria coscienza, ma anche storia magnifica com'è, come dev'essere magnifica la consapevolezza di essere nel giusto e comportarsi di conseguenza, pur di fronte a un quotidiano di prevaricazione, persecuzione, ingiuria fisica e morale. Nei campi di prigionia tedeschi. Non uno, ma più: Sandbostel, Czestochowa, Cholm, Deblin Irena, Oberlangen, ancora Sandbostel, Wietzendorf. Dove papà Giovanni è internato dopo l'8 Settembre del '43 per essersi rifiutato, lui, ingegnere, ufficiale dell'Esercito, di arruolarsi nella Repubblica sociale. Lui è uno dei 600mila «Internati Militari Italiani», una «invenzione burocratica - spiega l'autore - priva di ogni fondamento giuridico che giustifica la non applicazione delle convenzioni internazionali e l'assenza della protezione della Croce Rossa». Tanto che - come riconosce lo storico Donald Sassoon nella postfazione del libro - «le loro condizioni, come risulta da queste pagine, erano particolarmente penose». Unico modo di sopravvivere, di non rimanere irrimediabilmente fiaccati nel fisico e nello spirito, è continuare a scrivere: per mantenere saldo, in qualche modo, il legame con i propri cari, ed anche per conservare - per se stesso, o per chissà chi, non sarà mai che... - traccia indelebile di un'esperienza umana tanto disumana.
Comincia un'odissea, per Giovanni, che si protrarrà fino alla fine della guerra, fino al ritorno a casa. Che, a un certo punto, di fronte alle tante vittime del conflitto, diventa un epilogo insperato e, anche per questo, vissuto quasi come una colpa: la colpa di essere vivo, di rivedere i propri cari, di ricominciare a dormire nel proprio letto e a cibarsi di qualcosa che sa di pane, mentre l'animo riprende a cibarsi di qualcosa che sa di speranza e di futuro. È a quel punto che Giovanni decide di tacere, di non ricordare, neppure a chi gli sta più vicino e potrebbe comprendere.
A spiegare perché, in fondo, la guerra di suo padre ricomincia allora è il figlio Luca, proprio in queste pagine: «La vicenda dei prigionieri italiani - sottolinea - è stata affrontata dagli storici solo negli ultimi vent'anni, non è ancora arrivata alla memoria pubblica collettiva. C'è un silenzio assordante che deriva forse dalla nostra difficoltà a razionalizzare quello che è successo durante la Seconda guerra mondiale, al di là della Resistenza», al di là della lotta dei partigiani. A questi gli onori e le benemerenze ufficiali; ai prigionieri, compresi i sopravvissuti che pure hanno rischiato di morire per non arrendersi agli invasori, solo «indifferenza e fastidio, come stranieri in patria, ignorati e respinti da un Paese che non li riconosce e in cui non riescono o non vogliono riconoscersi. Ultimi involontari ostaggi di una guerra senza memoria e senza narrazione pubblica».
Certo, non basterà un libro, per quanto frutto di profonda riflessione e documentazione come questo di Luca Borzani, a rimuovere tante sovrastrutture incarognite e a fare giustizia di luoghi comuni e di interpretazioni lacunose del passato. Ma servirà, questo libro, eccome servirà, oggi, almeno a far riflettere su un Valore dimenticato, quasi fosse politicamente scorretto: la coerenza.
Luca Borzani, «La guerra di mio padre», Il Melangolo, 184 pagine, 16 euro.
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